Recensione: Redemption

Di Daniele D'Adamo - 17 Dicembre 2010 - 0:00
Redemption
Band: Ektomorf
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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57

Nono (!) full-length per gli ungheresi Ektomorf, alfieri (assieme, anche, ai Soulfly) di quel nu-metal (diventato poi groove metal) nato agli inizi degli anni ’90, quando i Sepultura iniziarono a modificare le coordinate natie del thrash metal rallentando il ritmo e abbassando l’accordatura delle chitarre (periodo post-“Chaos A.D.”, 1993).
Classico gruppo, insomma, che dà vita ai due eterni tormentoni: «è metal, oppure no?», «è true metal, oppure no?». Alla prima domanda rispondo «sì, certamente!». Se il metal è l’espressione di una musica anticonformista e potente, elettrica; dove le chitarre distorte, i riff quadrati e il drumming rutilante la fanno da padrone, allora ci siamo. Per quanto riguarda la seconda domanda preferisco che ciascuno di noi risponda secondo proprio sentimento, data l’aleatorietà (per me) del termine «true».

Lo stile dell’ensemble di Mezökovacsháza è quindi allineato a quello delle due band brasiliane, per cui ci si può facilmente fare un’idea della tipologia musicale cui appartiene “Redemption”. «Chitarroni» dal sound poderoso che – accordati su toni più bassi rispetto a quelli canonici del thrash – producono riff semplici (di chiara parentela con l’hardcore) ma efficaci, costruiti sia con la tecnica del palm-muting sia «a mano libera». Batteria (József Szakács) varia e potente, avvolgente e intuitiva, che alimenta un moto circolare tale da costringere le braccia e le gambe ad agitarsi. E in ciò, appunto, consiste una delle definizioni più accettate dai critici musicali per quanto riguarda il concetto di «groove». Le linee vocali di Zoltán Farkas passano senza soluzione di continuità dal clean allo screaming, mentre quelle della quattro corde di Csaba Farkas rendono più percepibili le basse frequenze aggiungendo energia a un sound già massiccio per via del lavoro delle asce assegnate a Farkas e Tamás Schrottner.

In tre parole: nulla di originale. Se nella decade a cavallo del nuovo millennio il nu-metal ha avuto il suo momento di massimo splendore, nel 2010 appare inutile proporre testardamente stilemi vecchi di lustri senza, in più, tentare di contaminarli e/o farli progredire in modo da iniettare nuova linfa vitale nella penna di chi scrive le musiche. “Redemption”, difatti, è pieno zeppo di quei luoghi comuni (i quali, in sostanza, coincidono con gli stilemi stilistici più sopra elencati) che hanno oramai fatto il loro tempo; luoghi comuni che si sono consolidati – appunto – poco dopo la sterzata thrash metal/nu-metal eseguita dal gruppo di Max Cavalera.

E allora via: “Last Fight” apre le danze con la delicatezza della carta di vetro a grana grossa. Un tornado in lento movimento che ruota vorticosamente intorno a un rifferama possente, quasi indistinguibile – in termini di frequenza – dal rombo del basso. Il drumming avvolgente che non fa sconti sull’utilizzo dei piatti e i soliti «fuck-off» urlati a squarciagola da Farkas completano un suono dalla potenza elevatissima. Un manifesto di groove metal, appunto. Ma, purtroppo per i Nostri, mancante di particolarità artistiche diverse da quelle di un sound che intrappola tutto e tutti come le sabbie mobili. La title-track, infatti, non rivela – anche dopo innumerevoli ascolti – alcun che di diverso da ciò che mostra la canzone precedente. La leggera decelerazione dal sempiterno mid-tempo di Szakács, che caratterizza “I’m In Hate”, fa però bene alla salute del disco, assieme ai tetri e dissonanti arpeggi delle chitarre. Di nuovo potenza, potenza e potenza (e null’altro) nella successiva “God Will Cut You Down”.
Siamo ormai a un terzo del platter: per descrivere il disco nella restante parte (da “Stay Away” ad “Anger”) basterà ripetere due volte quanto già scritto per le prime quattro song (con l’eccezione di “Sea Of My Misery”, malinconico pezzo dal forte sapore di grunge). Ciò evidenzia il grave limite di “Redemption”, CD dalla densità di potenza enorme ma senz’anima.

Nulla da dire sulla bravura del quartetto magiaro, irreprensibile nell’esecuzione dei dodici brani proposti, restituiti peraltro in modo pressoché perfetto grazie a una produzione professionalmente mirata. Tanto da dire, invece, sul songwriting; a parere di chi vi scrive addirittura «assente» giacché – per sintetizzare – il tutto appare solo e soltanto come un esercizio d’esecuzione ritmico/strumentale fine a se stesso dal quale è stato bandito, non si sa perché, l’aspetto artistico.

In parole povere non ci si può concentrare in tal modo per raggiungere unicamente la perfetta fusione fra musica e ritmo; tralasciando la composizione di quelle che, alla fine, sono le canzoni che devono rimanere nella testa degli appassionati. Questo, forse, è il limite del groove metal.
Sicuramente, quello di “Redemption”.  
 
Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. Last Fight 4:17
2. Redemption 2:51
3. I’m In Hate 3:25
4. God Will Cut You Down 3:04
5. Stay Away 2:26
6. Never Should 4:21
7. Sea Of My Misery 2:13
8. The One (feat. Danko Jones) 3:40
9. Revolution 3:49
10. Cigany 3:09
11. Stigmatized 4:38
12. Anger 3:28

All tracks 41 min. ca.

Line-up:
Zoltán Farkas – Vocals, guitar
Tamás Schrottner – Guitar
Csaba Farkas – Bass
József Szakács – Drums
 

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