Recensione: Reinventing The Steel

Di Stefano Burini - 12 Gennaio 2013 - 0:00
Reinventing The Steel
Band: Pantera
Etichetta:
Genere:
Anno: 2000
Nazione:
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75

“Reinventing The Steel”, uscito nel marzo del 2000, rappresentò l’ultimo capitolo della storia di una delle band metal più famose, apprezzate ed influenti degli anni ’90: i Pantera. Il clima all’interno del gruppo, a qui tempi, non era di certo dei migliori e ci vollero, dunque, ben quattro anni perché il successore dell’ottimo (e atipico) “The Great Southern Trendkill” vedesse la luce. Erano gli anni in cui la dipendenza da droghe pesanti da parte di Phil Anselmo aveva raggiunto il suo culmine, finendo per creare tensioni e divisioni interne. Inoltre l’evidente predilezione, da parte del cantante texano all’epoca, per i Down (e per i numerosi altri progetti paralleli allora in cantiere) contribuì ad allontanarlo definitivamente dalla band madre.  

Registrato, forse, più per obbligo di firma con la East West Records che non per reale convinzione, “Reinventing The Steel” non era il disastro che molti avrebbero poi descritto; ciò nonostante i fan (e parte della critica) non gli perdonarono il gravissimo peccato di essere “solo” un buon disco. L’energia non mancava e di thrash/groove metal “à la Pantera” ce n’era a profusione. D’altro canto il confronto con con quattro capi d’opera come quelli partoriti tra il 1990 e il 1996 era davvero spietato e ascoltando alcune delle tracce in scaletta era evidente come la spinta propulsiva dei quattro Cowboys di Arlington si fosse decisamente attenuata, lasciando talvolta spazio a del semplice mestiere.

“Hellbound” era secca e tirata, un brano velocissimo e furioso con un Anselmo demoniaco come forse non mai; addrittura fuorviante, per certi versi, rispetto ad un prosieguo composto da brani mediamente molto più lunghi e un po’ più ragionati. Un assalto all’arma bianca, un diretto in pieno volto, senza fronzoli di sorta e animato da tanta furia cieca. Decisamente più soddisfacente la successiva “Goddamn Electric”, memore di certi episodi di “Vulgar Display Of Power” e dotata di un riffing e di un cantato molto più personali ed incisivi. Nel finale di traccia, dopo un breve ed efficace guitar solo ad opera dell’immancabile Dimebag Darrell, c’era spazio anche per un ospite d’onore: nientemeno che Kerry King, alle prese con uno dei suoi classici assoli “noise & whistles” sinceramente poco incidente sulla resa di un pezzo già di suo ben riuscito.  

“Yesterday Don’t Mean Shit” era puro mestiere: un brano, di nuovo, molto ritmato ed energico, di per sé piacevole ma decisamente lontano dalle vette cui i Pantera ci avevano abituato in passato. Il riscatto era, ad ogni modo, dietro l’angolo e la doppietta composta da “You’ve Got To Belong To It” e “Revolution Is My Name” tornava ai fasti qualitativi dei tempi d’oro. La prima, entrava immediatamente in testa grazie al riffing dinamico e trovava il proprio punto di maggior forza in una delle migliori prestazioni vocali offerte da Anselmo su RTS, mentre la seconda era semplicemente la top track in scaletta: potente, veloce, ispirata e a tratti addirittura rockeggiante come ai tempi di “Cowboys From Hell”.  

“Death Rattle”, “We’ll Grind That Axe For A Long Time” e “Uplift” si mantenevano su livelli più che sufficienti in termini di grinta e di performance ma la mancanza di reale ispirazione, di assoli da mandare a memoria e di hookline davvero vincenti, si faceva obiettivamente sentire. Chiudevano, viceversa, in rialzo l’oscura e Machine Head-iana “It Makes Them Disappear”, illuminata da un bell’assolo a tinte bluesy da parte del solito, grande, Dimebag e la conclusiva “I’ll Cast A Shadow”. caratterizzata da un incipit di marca doom, cadenzato ed odorante di zolfo, sopraffatto alla distanza dai riff schacciassassi di Darrell e dalle ritmiche implacabili di Vinnie e Rex.  

Indubbiamente i quattro Cowboys From Hell avrebbero potuto lasciare il testimone qualche anno prima e chiudere la carriera con opere di ben altro spessore, ciò nonostante “Reinventing The Steel” pur non avendo i crismi del capolavoro, si configura a tutt’oggi come un onesto commiato nei confronti delle miriadi di fan sparse per il globo. Di nuovo o di “reinventato”, in questa loro ultima testimonianza in studio, c’era davvero poco (al contrario di quanto accadde con “The Great Southern Trendkill”) né quegli sparuti semi lanciati in un terreno non più fertile come un tempo ebbero occasione di poter germogliare, eppure poter risentire i Pantera ancora vivi e vitali e in grado di comporre almeno quattro canzoni degne di rivaleggiare con i vecchi classici era già di per sé un grande risultato. La Storia si dimostrò poi crudele portandoci tragicamente via lo straordinario talento di Dimebag Darrell e lasciandoci in eredità svariati progetti più o meno nuovi quantomeno in grado di mitigare la delusione per una perdita così importante. Ma questa è un altra storia…  

Stefano Burini

 

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Tracklist

01. Hellbound   02:41
02. Goddamn Electric   04:58
03. Yesterday Don’t Mean Shit   04:19
04. You’ve Got To Belong To It   04:13
05. Revolution Is My Name   05:19
06. Death Rattle   03:17
07. We’ll Grind That Axe For A Long Time   03:44
08. Uplift   03:45
09. It Makes Them Disappear   06:22
10. I’ll Cast A Shadow   05:22

 

Line Up

Phil Anselmo: voce
Dimebag Darrell: chitarra
Rex Brown: basso
Vinnie Paul: batteria

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