Recensione: Relatos De Angustia

Di Manuele Marconi - 12 Ottobre 2020 - 14:57
Relatos De Angustia
Band: Selbst
Etichetta: Debemur Morti
Genere: Black 
Anno:
Nazione:
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50

La musica, si sa, non ha confini, e si diffonde fintanto che uno stereo o un altoparlante ne permettono l’ascolto. Questo vale per tutti i generi musicali, anche per il gelido black metal, genere nato e sviluppatosi nelle terre nordeuropee, ma ormai ascoltato in ogni parte del mondo. Se l’ascolto può non sorprendere grazie agli innumerevoli mezzi odierni che lo permettono, indubbiamente si rimane incuriositi di fronte a gruppi che scrivono e compongono musica di questo tipo al di fuori del vecchio continente; e se USA e Grecia ormai sono prassi, lo sono un po’ meno l’Asia ed il Sud America. Questa sorpresa può spesso avere un effetto galvanizzante in chi scopre tali realtà, proprio grazie all’uscita dall’ordinario ed alla possibilità di evadere dal circolo dei soliti posti e culture. A volte però questo non accade. Purtroppo è questo il caso di “Relatos De Angustia”, secondo lavoro in studio della one-man band venezuelana Selbst. Ci troviamo di fronte una composizione decisamente scialba, che sembra un tentativo di riproporre i vari stili dei gruppi preferiti dell’artista, creando una miscela che sa di tutto e niente. Si ha una sensazione di piattume generale che si protrae faticosamente per i 41 minuti di ascolto dell’album, che sembrano essere quasi un unico pezzo, dato lo scarso mordente e la somiglianza fra i pezzi. C’è una fortissima mancanza di personalità in ogni brano, che non fa nulla per risultare deleterio all’ascolto, ma nemmeno si impegna per motivare a mantenere le cuffie alle orecchie, lasciando il disco impantanato in una palude di mediocrità veramente profonda. Qualche rullata di batteria o qualche momento di cantato in pulito non bastano per destare l’interesse dell’ascoltatore, e finiscono per diventare ingredienti di un minestrone sonoro senza identità. Riff di chitarra che si somigliano tutti e trame di batteria ripetute portano subito noia, evidenziando ulteriormente la scarsa varietà del lavoro. Unico episodio godibile del disco è “The Weight Of Breathing”che, tirando le somme regala buoni passaggi di chitarra e dietro le pelli, ma sembra comunque trascinarsi inutilmente, come se volesse per forza far durare il pezzo più di 6 minuti, quando poteva tranquillamente durare la metà. In questo modo tedia l’ascoltatore e rovina il buono costruito all’inizio del brano. Presi singolarmente, i pezzii che compongono questo lavoro non sono pura spazzatura, sarebbero da sufficienza stiracchiata. Il giudizio complessivo del full lenght però non può che essere insufficiente, considerata la prova d’ascolto nel suo insieme, sintesi di una composizione noiosa e senza carattere.

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