Recensione: Reptilian
«Epic black metal»?
Fra la numerosa prole del metallo nero, il neonato sottogenere farebbe la sua bella figura, se la relativa stirpe incominciasse dai Keep Of Kalessin. La band norvegese, capitanata sin dagli albori (1993) dal leader carismatico Obsidian Claw, ha sempre amato sporcare l’ortodossia black con manate di metal tradizionale, dai forti toni da leggenda; soprattutto dopo la rinascita verificatasi con “Armada” (2006). Passato il riuscito “Colossus” (2008) è ora il turno di “Reptilian”, quinto album in studio.
Il black metal, specificamente quello sinfonico, aveva bisogno di uno spintone per emergere dalle sabbie mobili cui era sprofondato – per mancanza d’idee – sino alla cintola. Volenti o nolenti, tutto era già stato sviscerato, da quando Vegard Sverre Tveitan aka “Ishahn” decise, nel 1991, di arricchire la ruvida scorza del black primigenio con l’apporto melodico delle testiere, pompose e trionfanti.
Ebbene, questa spinta potrebbe esser proprio quella data da “Reptilian” – in linea generale, per me, un bel passo in avanti rispetto a “Colossus” – lavoro che coinvolge aspetti diversi, fra i quali i più rilevanti sono una terribile forza motrice e una lucente aurea innovatrice, rilevabile in gran parte nelle melodie, parecchio gradevoli ma non catchy.
Per quanto riguarda la propulsione, Vyl e Wizziac formano un duo affiatato, sprigionante argento vivo da ogni poro: dai mid tempo ai blast beats non si perde mai un colpo per strada, anzi. La mostruosa rabbia messa nel suonare è costante nella furibonda intensità. Un vero treno in corsa, inarrestabile. Potendosi permettere un tale lusso, Obsidian Claw sfrutta ogni possibilità ritmica per materializzare sul rigo musicale le vorticose idee che gli frullano per la testa. L’incessante lavoro della sei corde spazia fra riff di diversa natura, dallo stoppato iper compresso («palm muting») ai più leggiadri arpeggi; tenuti assieme dallo spesso sudario tessuto dalle tastiere. Ciliegina sulla torta, la versatilità della voce di Thebon, a suo agio sia nei passaggi più sulfurei (“The Awakening”), sia in quelli più rarefatti (“Dark As Moonless Night”).
Il secondo aspetto: l’originalità. Non si tratta di uno stravolgimento epocale, tuttavia il quartetto percorre sentieri piuttosto solitari, con il proprio sound. Se nel death la commistione con elementi etnici, cyber, ambient ha già dato i suoi frutti; nel black sinfonico c’è sempre stata una certa resistenza nel modificare la ferrea impostazione di base. I Keep Of Kalessin, invece, affiggono con decisione sul loro imponente e tetro muro di suono dei ricami inaspettatamente fini (il chorus di “The Divine Land” …). Il mood generale, quindi, buio e cupo, assume un arricchimento ricco di visioni fantastiche, con forti richiami a qualche misteriosa terra d’oriente; immaginando di osservarla, abbacinati, quando il sole tramonta sulle dune sabbiose disegnando ombre dalle forme più strane (“The Dragontower”).
La bravura tecnica dei singoli membri e il relativo, spesso background culturale fanno inoltre si che ci sia un terzo, ulteriore elemento di qualità: il songwriting. Le canzoni sono ben costruite, ottimamente amalgamate e correttamente bilanciate fra momenti di furia assoluta e attimi di pacata riflessione. Nonostante il minutaggio sfiori l’ora, la varietà dei brani è tale che risulta praticamente impossibile annoiarsi. Assai riusciti i break in mid tempo (“Dragon Iconography”, “Judgement”), che metteranno a durissima prova le vertebre cervicali di chi ascolta e che saranno una sicura fonte di distruzione in sede live. Ovviamente questo è solo un esempio di efficacia e consistenza: non da meno sono, infatti, le violentissime sfuriate oltre i limiti umani di velocità, dove il parossismo annebbia la vista (“Leaving The Mortal Flesh”). Pure notevole l’articolazione della scrittura musicale, che trova l’acme nella suite finale “Reptilian Majesty” ove, per chi ha buona memoria, si possono ascoltare fra l’altro echi provenienti dalle composizioni del tastierista francese Jean Michel Jarre (sic!).
Ultima osservazione: nonostante l’intromissione, nel sound, d’ingredienti così diversi, Obsidian Claw e compagni non perdono mai, nemmeno per un instante, la direzione musicale. Pericolo intrinseco in chi ha il coraggio di osare soluzioni diverse da quelle convenzionali.
Chiunque ami il black contaminato da influenze che lo allontanino dall’ortodossia, troverà in “Reptilian” molto, molto pane per i propri affilati denti. I Keep Of Kalessin possono a questo punto solo migliorare se stessi, dato che in fatto di progressione evolutiva si può trovar di meglio – a parer mio – solo in ambito avantgarde.
Ma, questa, è un’altra storia.
Per ora.
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Track-list:
1. Dragon Iconography 7:30
2. The Awakening 8:19
3. Judgement 5:10
4. The Dragontower 4:43
5. Leaving The Mortal Flesh 4:25
6. Dark As Moonless Night 5:50
7. The Divine Land 6:47
8. Reptilian Majesty 14:13
Line-up:
Torbjørn “Thebon” Schei – Vocals
A.O. “Obsidian Claw” Gronbech – Guitars, Keyboards, Backing Vocals
Wizziac – Bass, Backing Vocals
Vegard “Vyl” Larsen – Drums