Recensione: Rise Of The Tyrant

Di Mattia Di Lorenzo - 13 Dicembre 2007 - 0:00
Rise Of The Tyrant
Band: Arch Enemy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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77

Con grande dispiacere di tutti Christopher Amott aveva lasciato gli Arch Enemy nel luglio 2005, subito dopo la pubblicazione del sesto cd da studio, “Doomsday Machine”. Il suo ritorno, nel marzo di quest’anno, giunge come un fulmine a ciel sereno, insieme all’annuncio di questo nuovo lavoro della band.

La copertina (molto bella) lascia presagire un cd molto interessante, i fatti non smentiscono. Anche se…

C’è qualche remora nell’ammettere che questo cd è uno dei più belli pubblicati dalla band.

Molti inneggiano al capolavoro, affermano che nulla di simile è stato composto dai due fratelli, né nell’era Gossow, né in precedenza. Di certo ci sono buone ragioni per sostenere questa idea: la grande forza di “Rise of the Tyrant” sta nell’inscindibile connubio di una melodia irresistibile fin dal primo ascolto e un grande impatto “in the face”, cosa che non può mancare in un cd death che si rispetti. Se le prime uscite trasmettevano grande intensità, ma mancavano della giusta esperienza e di una produzione professionale, con l’ingresso di Angela la band intraprese con fermezza la via della melodia agile e immediata, rischiando talora di appiattirsi troppo.

Qui i due aspetti sono entrambi presenti nella giusta misura, e il risultato è sorprendente: come non rimanere avvinti dal riff di “I will live again”, o dai bellissimi soli di “The Last Enemy”? O magari dal ritornello tutto da urlare di “Revolution Begins”, che sembra chiamare a raccolta la folla dei concerti in un impeto di follia collettiva? Oppure dall’ossessiva ciclicità della conclusiva “Vultures”, che nella sua stessa struttura e nel giro di chitarra introduttivo richiama i cerchi mortali del volo degli avvoltoi? O, magari, dalla leggerezza ariosa del neoclassico “Intermezzo Liberté”? Anche i momenti un po’ depressi, come “In this Shallow Grave” o “The Day You Died”, ai primi ascolti scorrono via bene senza problemi, lasciando l’impressione di un lavoro perfettamente compiuto.

Il segreto? La tecnica compositiva: mentre Angela insiste sulle timbriche sporche e cattive -lasciando ai detrattori le polemiche su quanto siano reali, insieme alla considerazione che su ogni cd la voce della cantante “suona” diversa… – le chitarre portano avanti i temi musicali delle specifiche canzoni. In questo modo la “mono-tonia” (intesa come insistenza obbligata su un singolo suono) del canto scream è superata, e incredibilmente i ritornelli si possono perfino “canticchiare”. L’assoluta qualità dell’inventiva melodica degli Amott è resa esplicita da ogni singola traccia, il missaggio è perfetto e la produzione è la più professionale della storia Arch Enemy.

Il problema allora dove sta?

Che per un gruppo come questo è difficile raggiungere una qualsiasi oggettività nel giudizio. Inutile nascondere che la “particolarità” che distingue gli Arch Enemy dalle decine di altre band dello stesso genere musicale, è avere una cantante dietro al microfono al posto del classico energumeno borchiato. Ma mentre in passato la Gossow si era destreggiata in growl e scream su tonalità “maschili”, estremamente gravi – forse inverosimili, ma di certo più familiari al medio pubblico death – qui il cantato è su altezze maggiori, tipicamente femminili. Il risultato suona vagamente stridulo e alla “Cradle of Filth”, e pertanto a riguardo non ci sono mezze misure: o piace, o fa letteralmente schifo. Il primo impatto può mandare in visibilio, o può far volare il cd fuori dal finestrino: de gustibus, come al solito… La scelta della band è interessante, davvero caratterizzante nella complessità del panorama metal. Ma agli elogi sono unite le critiche, e in questo caso non esistono compromessi.

Ma c’è dell’altro; questa prima motivazione, infatti, non è certo sufficiente a relegare “Rise of the Tyrant” tra i cd riusciti solo a metà: il guaio peggiore dal punto di vista strettamente musicale sta nell’esagerata enfatizzazione della tecnica compositiva di cui prima si è parlato. Ovvero, a piccole dosi il cd è davvero strepitoso, ma alla lunga la struttura delle canzoni si mostra ripetitiva, per quanto inventivo sia il riffing del singolo passaggio. Capita quindi, dopo parecchi ascolti, di non accorgersi più di quale traccia si stia seguendo, di distrarsi, vagando con l’attenzione verso altro. Cosa che per un musicista che non voglia fare da sottofondo alle compere natalizie in un supermercato è una gravissima condanna.

Sarò sincero: raramente un cd mi ha tanto esaltato ai primi ascolti per poi stancarmi così rapidamente. Anche qui, non è possibile assicurare che la sorte sia la stessa per qualunque ascoltatore. Ma si capisce che il pubblico ideale si riduce ulteriormente: bisogna saper apprezzare la Gossow e contemporaneamente non essere troppo esigenti nelle pretese di varietà compositiva per rimanere davvero colpiti da “Rise of the tyrant”.

Insomma, bene, ma mai abbastanza. Non per farsi apprezzare da tutti, non per entrare nel novero delle band che contano davvero, non per dissipare i dubbi sulla legittimità di Angela nel ruolo di cantante della band, e nemmeno per spodestare “Black Earth” e “Wages of Sin” dai cuori dei fan.

Quest’album sarà amato da alcuni, ma odiato dai nostalgici e disprezzato dagli scettici. Non è un cd da ignorare, questo no: lo ripeto ancora una volta, la qualità delle singole canzoni è notevole, purché non si sia troppo schizzinosi. È un manufatto di buon artigianato che merita almeno qualche ascolto, e può dare dei momenti di rara partecipazione emotiva. Basta non pretendere troppo e prendere le cose così come stanno.

In ogni caso, si può dire bentornato a Michael e augurargli un buon proseguimento per il lavoro futuro. Che, viste le premesse, sarà sicuramente degno di nota.

Mattia Di Lorenzo

Tracklist:

1. Blood on our Hands
2. The Last Enemy
3. I Will Live Again
4. In This Shallow Grave
5. Revolution Begins
6. Rise of the Tyrant
7. The Day You Died
8. Intermezzo Liberté
9. Night Falls Fast
10. The Great Darkness
11. Vultures

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