Recensione: Sentient

Di Daniele D'Adamo - 12 Aprile 2016 - 0:01
Sentient
Band: Nucleus
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2015
Nazione:
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60

Stati Uniti.

La terra del death metal avvolto dal doom. Una circostanza che interessa sia gli aridi e afosi stati del Sud, sia quelli, gelidi e umidi, del Nord. Quasi che incrociare i due generi sia una necessità impellente, per chi decidesse di mettere mano al primo dei due. Come se ci fosse un malessere generalizzato, negli States. Un malessere che non porta al black, come per esempio accade nei Paesi scandinavi, ma alla funeralizzazione del death. Alla sua allucinazione.

Non altrimenti si potrebbero spiegare le robuste iniezioni di acido lisergico che infettano il sangue dei Nucleus, quartetto di Chicago al debutto discografico con questo “Sentient”. In realtà i Nostri hanno già buttato materiale vario, in giro per il mondo: “Nibiru (Arrival Of The Ancients)”, singolo, 2012; “Contact”, demo, 2012; “The Colony”, EP, 2013; “Hegemony”, EP, 2015. Ma, si sa, è solo con il primo full-length che i giochi si fanno seri e duri.

A testimoniare questa tendenza inarrestabile verso le visioni fantasmagoriche tipiche dello stato di trance del doom, c’è la tematica trattata dalla band: la fantascienza. Tenendosi lontano dai soliti stereotipi dei testi death, “Sentient” sterza verso le dimensioni immaginate da autori classici come Isaac Asimov, Arthur Clarke e Frank Herbert. Connotando, all’intero CD, un’aura dalle tinte scure se non oscure, come la materia ignota che permea molta parte dell’Universo. Un’aura che proietta sulle song del platter un cupo e angoscioso immobilismo, come se la Terra smettesse all’improvviso di ruotare su se stessa e di orbitare attorno al Sole, in attesa di che l’attuale specie imperante – l’Uomo – lasci spazio a colonizzazioni aliene. Evidentemente più degne e meritevoli di godere delle immense bellezze naturali che definiscono la il globo terracqueo come pianeta sostanzialmente unico in un’ampia fetta di Cosmo.

Soffermandosi maggiormente sulle canzoni, dato atto della bontà e profondità dello stile dell’ensemble dell’Illinois, seppur non baciato da particolare originalità, appaiono i primi difetti di un lavoro comunque si attesta su una risicata sufficienza. Sintetizzando, le criticità sono due.

In primis, il growling delle linee vocali, troppo monocorde, troppo monotono per aiutare chi ascolta a discernere prima e memorizzare poi i vari brani di “Sentient”.

Poi, un’eccessiva caoticità di scrittura. La forma-canzone non si riesce praticamente a individuare con chiarezza anche dopo ripetuti e approfonditi passaggi a volo raso sul disco. Da un lato, però, questo caos (evidentemente voluto) aiuta, se così si può dire, ad alimentare l’allucinazione visiva che trae nutrimento dalla musica di “Cube” e compagnia cantate. D’altro canto, invece, il risultato pratico immediato è la percezione di un pizzico di noia: alla fin fine il sound è quello, inutile aspettarsi qualcosa di esplosivo, nel percorso da “Sentience” a “Starflyer”. Non a caso anche i blast-beats, purtroppo, sprofondano nelle sabbie mobili del tedio.

Bene il sound, male le song, per chiuderla lì.

Media: la sufficienza, ma giusto in corner.

Daniele D’Adamo

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