Recensione: Six
Nuova uscita discografica per gli Extreme intitolata “Six” (come il numero complessivo degli album pubblicati). L’album arriva a quindici anni di distanza da “Saudades De Rock” del 2008, il full-length, piuttosto deludente, della reunion. Dopo la lunghissima attesa, interrotta dalle reiterate dichiarazioni del vulcanico chitarrista Nuno Bettencourt che attestava l’ininterrotto impegno della band nella scrittura di nuovo materiale, era lecito attendersi un capolavoro assoluto, considerato che il gruppo poteva spigolare tra quanto composto nel corso di ben tre lustri.
È “SIX” l’opera maestra che si attendeva?
SI, se si guarda al lavoro chitarristico di Bettercourt che giganteggia e vede assolutamente confermata la propria fama di chitarrista ecclettico e originale, di gusto fuori dal comune e tecnica eccelsa.
NO, se si considera il lavoro nel complesso, con un paio di pezzi di cui gli Extreme avrebbero addirittura potuto fare a meno di deliziarci e tante, troppe ballads, in quello che sembra un bisogno ossessivo-compulsivo di superare se stessi e creare un brano in grado di bissare il successo dell’acustica “More than words” (terzo singolo dell’album Extreme II: Pornograffiti del 1990). La canzone che regalò al gruppo notorietà mondiale e consegnò alla storia una bellissima canzone d’amore.
I primi tre brani dell’album sono semplicemente strepitosi e presentano la band in forma smagliante, con chorus orecchiabili e convincenti, un Bettencourt che non risparmia niente e nessuno e il cantante Gary Cherone che lo tallona da vicino.
Apre “Rise”, dal gusto alternative rock e dal bridge sincopato, con un assolo che non è esagerato definire spaziale, seguito a ruota da “#Rebel”, dalle sonorità altrettanto moderne, ma appena più convenzionali.
“Banshee” è un brano di sano e robusto hard rock che tiene incollati all’ascolto, sebbene abbia punti di contatto la parte finale di “Girls, Girls, Girls” dei Mötley Crüe e con il relativo fraseggio chitarristico di Mick Mars.
Dopo un inizio con il botto il compito di permettere di tirare il fiato è affidato alla mid tempo “Other Side Of The Rainbow” dalle atmosfere rilassate e dal ritornello orecchiabile. Una pausa ci sta tutta, ma ci si aspetta qualcosa di più dagli Extreme di un ritornello con rima “Maybe/Babe”.
Si passa a “Small Town Beautiful” la prima delle ballad e uno di quei pezzi non indispensabili di cui si diceva prima, dall’effetto lievemente lassativo.
La band si riscatta dagli ultimi due brani con l’ottima “The Mask”, che invita a mostrarsi per quello che si è realmente, originale e trascinante, con un grande testo. Su un essenziale incipit basso-batteria, il brano vede la voce di Gary Cherone elevarsi dal tono profondo e cavernoso alla Iggy Pop delle strofe al tripudio del chorus.
“Thicker Than Blood” che apre a sonorità industrial/elettroniche è seguita dalla più che onesta “Save me” che sfodera un riff pesante e un chorus che lascia il segno.
Altro giro, altra ballad intitolata, “Hurrican”. Il brano è apprezzabile ma rappresenta l’ennesimo tentativo di riacciuffare la perfezione di “More than words”.
In “X Out” la musica elettronica e Cherone tornano a mettersi in evidenza, in un pezzo che richiama atmosfere alla Muse.
Se l’album fosse terminato qui non avrebbe subito un impietoso abbassamento della media da parte del pseudo reggae di “Beautiful Girls”, tollerabile solo se a stomaco vuoto ci si è scolati almeno quattro Daiquiri, e di “Here’s To The Losers”. Ultimo brano e ultima ballad dell’album: strano, quanto poco riuscito tentativo di mischiare ai Queen ai Coldplay, con tanto di coro affettato e un’insopportabile reprise quando lo strazio sembrava terminato.
Peccato, sforbiciando appena qualche brano, Six da un album con alti e bassi, che offre il destro a fondate obiezioni, avrebbe potuto davvero essere il capolavoro preannunciato. Senza se e senza ma.
