Recensione: Spellcrying Machine

Di Claudia Gaballo - 2 Ottobre 2019 - 11:31
Spellcrying Machine
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2019
Nazione:
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80

Produrre un album death metal interamente strumentale è un’impresa impegnativa sotto svariati punti di vista. Le opere strumentali sono spesso scelta di sottogeneri diversi – come il black, l’ambient, il symphonic – e per una buona ragione: si mira a creare un’atmosfera, un mondo in cui l’ascoltatore possa perdersi. Per proporre qualcosa di diverso bisogna quindi stare molto attenti, non si può improvvisare, o il rischio è quello di ritrovarsi tra le mani la colonna sonora di un action di serie Z. Ci vuole inoltre una certa solidità dal punto di vista tecnico e delle buone idee per la composizione dei brani, che senza voce e testi potrebbero sembrare solo delle basi.

Non mentirò: se non siete abituati al metal strumentale ci vorrà un po’ prima che questo “Spellcrying Machine”, terzo nato dei bielorussi  Essence Of Datum, ingrani. All’inizio infatti aspetterete che qualcuno inizi a cantare, questo non succederà e sembrerà come se la canzone non cominci mai davvero. Ma dopo i primi minuti di stordimento inizierete ad apprezzare a pieno quest’opera.

Sin dall’inizio ci accorgiamo del corpo solido e ben strutturato di ‘Synthetic Soul Extractor’, il primo e forse miglior pezzo di tutto l’album. Si tratta di una traccia ambiziosa che si incupisce sempre di più con il passare dei minuti; qui la band dà subito sfoggio delle proprie capacità tecniche. ‘Shikari Algorithm’ è un altro brano complesso e curato, che alle già citate atmosfere dark aggiunge un tocco di epicità. Altre caratteristiche distintive degli Essence Of Datum sono l’aggressività e la velocità del metal più primitivo, che ritroviamo in ‘Pendulum’, ‘Spellcryer’ o ‘Binar’. Attenzione però a non confondere il termine “primitivo” con “amatoriale”: ogni brano di questo album è curato nei minimi dettagli e dimostra consapevolezza nel processo compositivo. In parole povere, questi ragazzi sanno quello che fanno.

‘Vitality’, acustica e malinconica, interrompe per pochi minuti i ritmi serrati e sfuma nella parte iniziale di ‘Spellcryer’. Questa ballata purtroppo stona un po’ nell’armonia dell’album, non perché sia lenta ma perché eseguita in uno stile vagamente latineggiante che non si concilia con tutto il resto. ‘Cavum Atrum’ è il pezzo finale e il più oscuro di tutti, con dei momenti quasi black e un bel suono vellutato.

Alla fine di questi 40 minuti di “silenzio” possiamo confermare che “Spellcrying Machine” è un’ottima opera strumentale. Atmosfere dark ed epiche si mescolano al metal più crudo in perfetta armonia, regalandoci assoli pieni di trasporto e momenti tecnici di alto livello. C’è un’idea e c’è una struttura. In rari momenti, bisogna ammetterlo, si sente la mancanza della voce: è come se la musica fosse stata scritta per delle parole poi estromesse, si percepisce un vuoto da colmare. È questo un limite o rende l’opera ancora più interessante? Lascio a voi decidere.

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