Recensione: Spine Of God

Di Michele Carli - 4 Maggio 2010 - 0:00
Spine Of God
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Anno: 1992
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85

Stoner rock è un termine ormai usato e abusato un po’ da tutti. Un termine soprattutto giornalistico, diventato di uso comune più o meno al tempo dell’uscita del seminale Blues For The Red Sun dei Kyuss e di Holy Mountain degli Sleep, che cerca di contenere dentro di se una gigantesca mole di musica e musicisti. All’interno di questa definizione, infatti, ruota una grandissima quantità di suoni e sensazioni: dal suono desertico dei già citati Kyuss, al rock venato di garage dei Nebula e dei Fu Manchu, ai suoni granitici e pachidermici di Acid King e Sons of Otis, alle atmosfere eteree di Colour Haze e Earthless. Ma l’unico vero denominatore comune; l’unica cosa che può effettivamente riunirli è la psichedelia. L’allargamento della coscienza attraverso sostanze psicotrope per scrivere su supporto mobile, oltre ai suoni, colori, odori e sensazioni tattili.

Una venerazione verso le sonorità dei gloriosi ’60s e ’70s, con una predilezione verso Hendrix, Hawkwind, Captain Beyond, Blue Cheer e, ovviamente, i Black Sabbath, che ha portato alla rinascita di questo movimento nei primi anni novanta grazie a dei pionieri capaci di ricreare e ricercare le vecchie, acide sensazioni. Tra questi, bisogna senza alcun dubbio annoverare i Monster Magnet.

La band del carismatico Dave Wyndorf, formata dopo un passato dedicato al punk, vide la luce nel 1989 e cominciò a farsi conoscere grazie a un paio di demo, dal titolo inequivocabile di “Forget About Life, I’m High on Dope” e “I’m Stoned, What Ya Gonna Do About It?”, tanto per ribadire le coordinate del gruppo. Nel 1990, sotto la tedesca Glitterhouse Records, uscì l’ep omonimo e loro primo lavoro ufficiale, contenente sei tracce. Ma bisognerà aspettare il 1992 per avere tra le mani il primo, vero full length: Spine Of God.

“It’s a Satanic Drug Thing, You Wouldn’t Understand.”

Questo è l’avvertimento che si legge una volta aperto il libretto, proprio sopra alle facce non proprio sobrie dei quattro componenti del gruppo. E una volta inserito il disco nel lettore è la batteria di Jon Kleiman a darci il benvenuto, con la serie di rullate poste in apertura di Pill Showel. Poco dopo, il classico e immarcescibile riffone sommerso nel fuzz fa da contorno alla voce allucinata di Wyndorf, il quale canta seguendo una metrica molto vicina a quella usata dal buon Ozzy sulla sognante Planet Caravan. Un piccolo viaggetto tra le nebulose, prima di tornare drasticamente con i piedi per terra grazie a Medicine, che al tempo venne scelta come apripista per l’album grazie ad un video scarno ma efficace. Qui spunta l’anima più prettamente rock’n’roll dei Monster Magnet, con il loro lato più aggressivo a farla da padrone, ma è con la successiva Nod Scene che comincia veramente a farsi sentire lo space rock di Hawkwind e Captain Beyond. Suoni dilatati; chitarra quasi pulita che esegue una melodia semplice, eterea, e la voce di Wyndorf come una guida folle tra i grandi spazi aperti. Colori e suoni, note liquide, che esplodono poi nel fuzzoso refrain. Le stesse atmosfere lisergiche che si riscontrano anche nella conclusiva Ozium e nella splendida title track, vero punto di contatto tra le due anime del gruppo.

“My mind is so free
You wouldn’t believe
You wouldn’t believe”

Zodiac Lung è una tranquilla ballata ancora una volta debitrice verso la già citata Planet Caravan, mentre l’oscura Black Mastermind e la rockeggiante Snake Dance riportano su il lato garage, rozze e liberatorie come una bella scarrozzata nel deserto a bordo di qualche muscle car americana. Da segnalare anche la splendida cover di Sin’s a Good Man’s Brother dei leggendari Grand Funk Railroad, eseguita in modo grandioso, con quel suo riff trascinante in grado di scrostare l’intonaco dalle pareti meglio di un qualsiasi martello pneumatico, con l’effetto moltiplicato per dieci grazie alla devastante distorsione dei due chitarristi e alla produzione sporca e potente.

Dopo questo album, i Monster Magnet riuscirono a mantenere ben salda l’ispirazione grazie anche all’ingresso del virtuoso Ed Mundell alla chitarra al posto di McBain, e sfornarono almeno altri tre grandi album (l’acidissimo EP Tab, Superjudge e Dopes To Infinity) per poi continuare una carriera di alti e bassi, sebbene caratterizzata da una qualità media comunque elevata, dove la componente psichedelica è andata via via a perdersi fino ad esaurirsi.

In ogni caso, Spine Of God rimane uno degli album in assoluto più influenti di tutta la scena stoner rock e hard psych odierna. Un pezzo di storia da possedere a tutti i costi e da ascoltare con i finestrini abbassati durante le afose serate estive.

Michele “Panzerfaust” Carli


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Tracklist:
1. Pill Shovel
2. Medicine
3. Nod Scene
4. Black Mastermind
5. Zodiac Lung
6. Spine of God
7. Snake Dance
8. Sin’s a Good Man’s Brother
9.Ozium

N.b. L’album è stato ristampato nel 2006 dalla SPV con un nuovo artwork, nuove note e la versione demo della traccia Ozium.
 

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