Recensione: Stain The Sea

Di Manuel Gregorin - 3 Agosto 2021 - 9:41
Stain The Sea
Band: Inner Stream
Etichetta: Frontiers Music
Genere: Symphonic 
Anno: 2021
Nazione:
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70

Debutto discografico per gli Inner Stream, formazione guidata della vocalist argentina Ines Vera Ortiz, la quale dopo aver militato in alcune power metal band del paese sud americano decide nel 2008 di dare vita a questo suo progetto personale con cui esplorare lidi a lei più congrui.
Dopo un paio di demo nel 2017, la Ortiz inizia a collaborare con il tastierista Guillermo De Medio (già produttore di Tarja Turunen, Full Nothing e Barilari), che con la sua esperienza aiuta a dare il giusta direzione artistica agli Inner Stream, arrivando così nel 2020 ad approdare alla scuderia Frontiers.
Completata la formazione con Nicholas Papapicco alla batteria, Andrea Seveso alla chitarra e Mitia Maccaferri, gli Inner Stream possono dare alle stampe il loro debutto discografico sotto la guida della mano esperta del produttore Alessandro Del Vecchio.

Stain The Sea” – così titola questo primo capitolo discografico della compagine argentina (volendo anche italo-argentina visto la sezione ritmica nostrana della accoppiata Papapicco e Maccaferri) – si presenta come un album di metal melodico che fonde insieme vari generi come electro goth, symphonic e puntate nu-metal, il tutto ben amalgamato e servito dalla voce di Ines Ortiz.

Si inizia con le atmosfere gotiche di “Massive Drain“, prima canzone del disco, primo singolo ma l’ultima ad essere stata composta delle undici tracce di questo debutto. Il brano, come rivelato dalla stessa Ortiz, è stato scritto durante il lookdown causato dalla pandemia di covid e tratta di argomenti come dolore e solitudine da cui però si può arrivare anche ad un risveglio ed una rinascita. Tutti argomenti che ben si sposano con le atmosfere malinconiche del pezzo in questione al quale fa seguito “Fair War” brano più indirizzato verso il symphonic metal così come la buona “Dance With Shades” dove le melodie di tastiere si alternano a riff di chitarra corposi sovrastati dal cantato seducente di Ines.

Nonostante gli Inner Stream si sforzino di cercare una loro personalità sono inevitabili i riferimenti ad artisti come Evanescence e Within Temptation ai quali la Ortiz ha affermato di ispirarsi: in certe occasioni la formazione argentina tende a cadere un po’ nella trappola del “già sentito”.
Nonostante tutto i brani alla fine risultano comunque di piacevole ascolto, questo grazie alle qualità della vocalist sud americana oltre che all’esperienza dei veterani De Medio e Del Vecchio i quali sanno comunque indirizzare gli Inner Stream sui giusti binari.

In “Hunt Of You” e “Aftermatch” si respirano invece atmosfere vicine al nu metal, a dimostrare che la band prova a viaggiare a 360° trovandosi a suo agio a spaziare fra vari generi senza mai perdere di vista le atmosfere gotiche con le tastiere e le melodie vocali di Ines a giocare un ruolo di primo piano.

Il disco scorre via man mano che si susseguono i vari brani, come la malinconica “Drown Me” oppure “The Bridge” e “Last Drink” dove le armonie vocali sono accompagnate dai riff dal sapore decisamente metal del chitarrista Andrea Seveso. Una buona menzione anche per “If You Dare” con delle indovinate armonie suadenti ed un ritornello accattivante. Stesso discorso anche per la title track “Stain The Sea” che sfoggia alcune soluzioni dal sapore pop che però non guastano nel contesto generale del disco.

In conclusione “Real” dove tornano a riemergere le atmosfere sinfoniche supportate da riff massicci e dal cantato di Ines Ortiz, che in quest’ultima traccia si avventura in una prestazione che a volte sfiora il canto lirico.

Un esordio tutto sommato buono per gli Inner Stream, che grazie alla evidente versatilità può raccogliere consensi tra i fan del metal sinfonico, del nu e del gothic.
Va tuttavia sottolineato come i brani, pur essendo di buona fattura, sostanzialmente non dicano nulla di nuovo ed alla lunga tendano a volte ad assomigliarsi un po’. Pur attingendo idee da vari generi musicali, queste alla fine vengono sviluppate in un modo abbastanza standard e stereotipato.
Magari non proprio un difetto: il prodotto risulta ancora acerbo come spesso capita ai dischi d’esordio.

Dettagli che, ad ogni modo, potranno probabilmente essere sistemati con i lavori futuri.

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