Recensione: State of Deception

Di Roberto Gelmi - 10 Aprile 2020 - 12:28
State of Deception
Band: Conception
Etichetta: Indipendente
Genere: Progressive 
Anno: 2020
Nazione:
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73

Dopo più di vent’anni dall’uscita di Flow (punto di coalescenza della prima fase della band), risorti nel 2018, i Conception regalano a questo tormentato anno bisestile otto nuove canzoni che vanno a comporre l’atteso platter di Roy Khan e compagni.

State of Deception – lo diciamo subito – è un album imperfetto, con diversi difetti (anzitutto il minutaggio risicato), ma non per questo l’originalità, il fascino e la classe dei norvegesi sono del tutto assenti nel corso delle tracce proposte. Andrebbe, poi, ascoltato di seguito al bell’EP “My Dark Symphony”, in effetti più che un dittico si tratta di un full-length diviso in due uscite separate.

Di certo al quartetto scandinavo non manca la fedeltà al dettato sonoro che li ha resi celebri negli anni Novanta. Dopo un intro a mo’ di overture, l’opener “Of Raven and Pigs” è di quelli volutamente ostici d’approcciare, un vero pungo allo stomaco: oltre a testi distopici (“Nothing really matters/When your name is just a numbered plate/Nothing really counts/They washed your mind”), atmosfere oscure e ritmi insistiti (l’intero brano sembra vivere in una circolarità asfissiante) anche Østby ci mette del suo e sfodera un assolo spigoloso come pochi. Viene quasi in mente “Spitfall” dei cugini Pain of Salvation…

Il singolo “Waywardly Broken” valorizza gli acuti di Khan, le tinte restano cupe e le liriche abbondano di latinismi e significati reconditi (“Conquer divide/This is a war in reverse/That someone else/Victoriously fought out”); in “No Rewind” le ritmiche di chitarra sono ficcanti e decise, Tore si sollazza anche con un suo tipico assolo magistrale e non mancano anche alcuni influssi araboidi. Bentornati Conception!

Segue una concessione a un sound più easy-listening, con la ballad “The Mansion”. Niente da dire, tutto è da manuale, inclusa la comparsata dell’appassionante Elyze Ryd: siamo poco sotto il livello di classici targati Kamelot come “The hunting” e “House on a hill”. In sesta posizione troviamo un altro singolo, parliamo di “By the Blues”. Il groove presente nel pezzo non è niente male e anche il refrain resta impresso; i testi risultano un filo stucchevoli ma passabili nella loro bizzarria (“It’s the stuffin’ in the coffin/It’ll free you from the nothing/But you still get torn to pieces/By the blues”).

Fin qui l’album non lascia a bocca aperta, ma non è inficiato da cali qualitativi; vediamo se l’ultimo quarto d’ora non sarà da meno. Il mid-tempo “Anybody Out There” purtroppo è la traccia che convince meno in scaletta, non ci sono scusanti, si tratta di un filler a tutti gli effetti. A risollevare il morale ci pensa fortunatamente “She Dragoon”, song che con il suo caratteristico drumwork ribattuto, richiama le sonorità dei primi Conception, in particolar modo “Flow” (title-track del 1997). Tutto si conclude con la remastered version di “Feather Moves” (già comparsa nel singolo Re:Conception), sei minuti di struggimento interpretato dalle linee vocali istrioniche di Roy Khan, che ha tratto sicuro giovamento dall’uscita dal gruppo di Youngblood.

In definitiva State of Deception inganna o meno l’ascoltatore? Stiamo parlando di un buon album o della copia sbiadita dei primi Conception, quelli pirotecnici di “A million gods” per intenderci?

Parafrsando un detto antico, in medio stat veritas, il quinto tassello della loro discografia è un disco chiaroscurale, ben suonato e arrangiato ma senza particolare mordente. I pezzi proposti vivono di piccole finezze e momenti trascinanti, ma tutto in tono minore e umbratile. L’album, altresì e lo sottolineiamo, va ascoltato più volte per crescere d’intensità e sicuramente ai fan della prima ora farà piacere riascoltare i propri beniamini per niente scalfiti dal tempo, ma nemmeno desiderosi d’indulgere in tecnicismi fuori luogo.

I Conception in definitiva rimangono coerenti alla propria identità, riassunta in una quintessenza priva di orpelli prog. equidistante da quanto proposto sia dai connazionali e theateriani Circus Maximus sia dai più moderni Leprous.

 

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