Recensione: Statues Fall

Di Francesco Sgrò - 13 Giugno 2014 - 16:12
Statues Fall
Band: Edgedown
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2014
Nazione:
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73

Dopo aver accumulato una buona esperienza live, suonando in compagnia di colleghi affermati come Visions Of Atlantis, Arch Enemy, Amon Amarth, Sodom, Saxon ed altri ancora, i teutonici Edgedown – formatisi per volere del cantante Andreas Meixner, e dei chitarristi Mathias Gaßner e Michael Zebhauser – riescono ad ottenere un contratto con la Massacre Records e ad incidere questo “Statues Fall”, uscito giusto da un paio di mesi.
Affidato alle cure dei tecnici del suono Jan Vacik, Daniel Rehbein e Dejan Djukovic, il lavoro presentato dalla band si dimostra un valido prodotto per tutti gli appassionati del Metal più aggressivo e incandescente, anche se non proprio innovativo in termini stilistici.

Ad ogni modo sicuramente discreto è il risultato finale di un disco che trova il proprio inizio nella sinfonica e canonica “Intro” pronta, dopo una manciata di secondi, a confluire nelle note della rabbiosa Title Track: fin dai primi istanti la buona combinazione di una ricetta a base di potenza mista a melodia, ben evidenziate da una produzione cristallina in grado di porre in risalto ogni elemento della band.
Una partenza suggestiva, grazie soprattutto ai potenti riff inanellati dalle due chitarre, il cui lavoro risulta sempre ottimamente in primo piano.
La sete distruttiva del combo teutonico è più che mai viva anche nella decisa “In A Dream”, nella quale i nostri non tardano a dimostrare tutta la propria devozione verso il Metal più classico e di stampo anni ’80, risultando ancora per nulla originale, ma sicuramente efficace e di piacevole ascolto.

Sulle medesime coordinate sembra muoversi anche la successiva “Rising”, la quale senza troppe pretese si limita a mantenere la qualità dell’opera su buoni livelli, grazie nuovamente all’ottima prova tecnica di una band certa e sicura dei propri mezzi.
Con la successiva “Shot In The Dark”, il quintetto resta ancorato saldamente ad un Heavy d’assalto, imperniato su sonorità crude e velocità sostenute, dalle quali emerge un po’ di melodia che si palesa in un refrain semplice e discretamente evocativo, preludio ad una serie di parti soliste ben inserite nel contesto e mai troppo sopra le righe.

La seguente “Wasting Time”, rappresenta senz’altro la vera sorpresa dell’album: una decisa ballad carica d’energia, che potrebbe quasi ricordare lo spirito malinconico e furioso dei migliori Savatage.
Bella anche la melodica e violenta “Live Together Or Die Alone”, arricchita costantemente dal lavoro preciso ed elegante delle due chitarre che lascia spazio ad un ottimo ritornello in cui è la melodia a controllare la situazione.
Ormai giunto quasi al termine, il primo disco degli Edgedown, prosegue con la massiccia “No One’s Prey”, la quale ancora una volta non disdegna di volgere uno sguardo d’ammirazione per la lezione impartita in anni e anni di onorata carriera dai Saxon, regalando ancora un momento – per quanto prevedibile – di certo adrenalinico e ben riuscito.
Le successive “Fate” e “Flames”, costituiscono la doppietta conclusiva di un’opera che termina in modo estremamente malinconico, adagiandosi sulle note della già citata “Flames”, ballad dal sapore agro-dolce che pare tanto richiamare lo stile dei Metallica dei tempi d’oro (quelli del “Black Album”), per una conclusione rilassante ma energica.

Una buona via d’uscita per questo giovane quintetto tedesco, che in tal modo si congeda a testa alta, consegnando al mercato discografico un lavoro di discreta levatura.

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