Recensione: Strange Vibrations

Di Riccardo Angelini - 15 Marzo 2005 - 0:00
Strange Vibrations
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Anno: 2005
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65

Rinfoderate le spade: a dispetto del monicker, Turilli e Staropoli non c’entrano; con i power metallers nostrani infatti questi Rhapsody Sweden hanno in comune solo il nome. Poi cominciano le innumerevoli differenze, a partire dal contesto temporale: la loro proposta musicale infatti nasce (e muore), una trentina di anni or sono, in quel 1976 in cui i signori incontrastati dell’hard rock avevano già raggiunto l’apice del loro successo e ritagliarsi una fetta di ascolti a loro scapito era impresa quasi impossibile. Impossibile senza “quasi” per i Rhapsody svedesi, che loro malgrado fallirono nel tentativo di conquistare l’auspicata visibilità, finendo fatalmente nel dimenticatoio. Almeno fino ad oggi.
Ma che cosa ci offre esattamente questa ristampa? E’ presto detto: hard rock di buona fattura – che tuttavia paga un pesante tributo a loro maestà i Deep Purple – a tratti sfociante in pieno AOR e, soprattutto nei brani finali, contaminato da un abbozzo di attitudine prog. Il risultato? Un disco che si ascolta con piacere, ma che non lascerà (e di fatto non ha lasciato) un’impronta indelebile nella storia del rock.
Pezzi degni di nota, comunque, ce ne sono eccome. Il riff portante di Belly Dancer, nella quale si intravedono i primi timidi accenni progressivi, vince nettamente il confronto con molti rivali di più recente nascita, e si lascia ascoltare e riascoltare con grande piacere. Più lenta e pacata, emerge dal mucchio anche la ballata Crazy Dance, in cui la sintesi di pianoforte e chitarra, figlia anche di lontane reminescenze pinkfloydiane, crea un atmosfera assai suggestiva, un po’ sonnolenta ed enfatica al momento giusto. Le sonorità hard tornano alla ribalta nella title track, forte di un riff diretto ed efficace, seppur a tratti fin troppo debitore della lezione dei Deep Purple, e di alcuni vocalizzi di innegabile impatto (ma Gillan e Hughes sono ancora lontani). Qualche problema invece nasce laddove la band si spinge in territorio prog: al di là di una manciata di combinazioni più o meno riuscite, mancano gli spunti davvero interessanti od originali oltre, forse, alla versatilità e alla capacità tecnica necessarie per osare di più. Capita allora di essere sorpresi da qualche sbadiglio durante l’ascolto di The Creepers, forse il brano meno convincente del lotto, e dell’altrettanto prolissa Take to the Highway, incapace di tenere alta la tensione durante tutti i suoi quasi dieci minuti, a scapito di un piacevole break pianistico e degli sforzi dell’ugola di Alkhvist.
Al di là delle avventure progressive senza lieto fine, la principale critica da muovere alla band assomiglia a grandi linee a quella che oggi si rinnova all’esordio di molte nuove power metal band: album piacevole, indubbiamente ben suonato, ma privo di autentica originalità e fin troppo ossequioso verso i capisaldi storici del genere; né le due bonus track rappresentano un surplus qualitativo capace di incidere sulla valutazione finale. Chissà, forse qualcuna delle tante produzioni power che oggi sono etichettate come anonime, fra una trentina d’anni sarà ripescata da qualche label dalla memoria lunga, ansiosa di portare alla ribalta una piccola gemma dimenticata, come oggi è successo ai Rhapsody Sweden. Quel che è certo è che tutto sommato Strange Vibrations, per quanto ampiamente derivativo, si dimostra un album piuttosto ispirato, ben suonato e perfino vario, capace di emergere su buona parte dell’attuale produzione hard rock, nonché di sollazzare per qualche tempo i nostalgici degli anni settanta. Tutti gli altri sono avvisati: nulla di nuovo sotto il sole.

Tracklist:
1. I’ve Done All I Can
2. Been So Long
3. Crazy Dancer
4. Belly Dancer
5. Strange Vibrations
6. The Creepers
7. Take to the Highway
8. It’s Gotta Be Tonight
9. Sweet Rock’n Roll

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