Recensione: Strangers in the Night

Di Abbadon - 26 Gennaio 2004 - 0:00
Strangers in the Night
Band: UFO
Etichetta:
Genere:
Anno: 1979
Nazione:
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90

Secondo disco dal vivo per il combo di Phil Mogg dopo il precedente “Live in Japan” del ‘72, “Strangers in the Night” è l’ultimissimo disco degli Ufo (l’ultimo in studio era stato “Obsession”) antecedente al primo divorzio dal quintetto britannico del chitarrista Michael Shenker, ormai sulla strada dell’ospedale prima e del suo “Michael Shenker Group” poi. L’album esce sui botteghini nel 1979, a seguito del tour Euro/Americano di “Obsession”, e raccoglie il meglio di quello che la band mise sul palco nelle varie date, meglio che si quantifica veramente su livelli eccellenti (soprattutto viene usata tantissimo la tappa di Chicago, città che si sente spesso pronunciare nel disco, e città dove probabilmente gli Ufo raggiunsero il loro zenith di live-band). Questo live contiene, forse con qualche mancanza (almeno un paio di canzoni in più non sarebbero state affatto male), il meglio del repertorio di Pete Way e compagni. Non tenuti in considerazione i primi prodotti della band, gli Ufo attingono (anche giustamente) moltissimo dai platter capolavoro Phenomenon (da cui sono tratte “Doctor Doctor” e “Rock Bottom”), Force It (ben 5 brani, “Let it Roll”, “Shoot Shoot”, “Mother Mary”, “This Kids” e “Out in the Street”) e Lights Out (rappresentato da “Love to Love”, “Lights Out” e “Too Hot to Handle”). Strano il fatto che l’ultimo disco studio sia portato in auge da una sola traccia (“Only You can Rock Me”), ma in fondo non fa nulla, visto lo spessore complessivo della lista (completata da “Natural Thing” e “I’m a Loser” tratti da “No Heavy Petting”) dei nostri che, come già detto, presentano quasi il meglio del loro repertorio. Repertorio che viene suonato alla grande da tutti i componenti della band che, nel forse massimo periodo della sua forma, tira fuori una prestazione che se non è da brividi poco ci manca. Le canzoni sono in gran parte simili a quelle studio, con tantissima carica e voglia di suonare ma senza particolari virtuosismi (escludendo Rock Bottom, che viene allungata notevolmente e anche in modo perfetto), si sente però chiaramente il grandissimo impatto che hanno le tastiere (tanto di cappello a uno strapositivo Paul Raymond) su canzoni che nella versione studio non le presentavano (a causa della, all’epoca, assenza di un tastierista). Il culmine di questa addizione lo si ha probabilmente su “Doctor Doctor”, la quale intro, con le keyboards a supporto della chitarra, produce un effetto emotivo clamoroso, di un impatto nettamente superiore alla pur ottima intro presente su Phenomenon. Tale impatto non si sente solamente alle nostre orecchie, ma anche in quelle di tutti i fans presenti nelle varie registrazioni del disco. L’aspetto carismatico è, infatti, un altro punto sul quale vale la pena di soffermarsi. Anche se il combo non è che sia tutt’uno col pubblico quanto a parole (i dialoghi sono piuttosto pochi e nemmeno tanto esagerati, se vogliamo andare oltre al “questa song è tratta da”, “questa è per voi” eccetera), riesce comunque a tenere saldamente le redini della scena, producendo reazioni da parte degli spettatori che sfiorano la follia collettiva. Infatti, nonostante i pochi cori, le urla della gente sono veramente moltissime, e non si interrompono durante l’esecuzione dei vari brani, rimanendo spesso e volentieri come piacevole sottofondo, sottofondo che a mio modo di vedere riesce a rendere ancora più trascinante e magnetica una canzone. Il tempo e le canzoni si susseguono, e dopo quasi settanta minuti la band fa calare il sipario su una prestazione davvero splendida. Non me la sento di indicare una particolare song per un ascolto preliminare, o un tratto che risulta essere migliore di altri. La straordinaria continuità con la quale Way, Mogg, Shenker e gli altri riescono a rapire la gente riprova per l’ennesima volta (se mai ce ne fosse stato bisogno) di come questa strabiliante band fosse stata sottovalutata ai tempi e, volendo, di quanto lo è ancora adesso. Fortunatamente con lo scorrere del tempo le cose sono migliorate, perché ci saremmo privati di 5 interpreti che hanno anche loro contribuito a rendere immortale e materia di insegnamento per i gruppi futuri il Rock degli anni ’70, rock del quale questo live (ecco il termine che calza a pennello per questa prova : una prova anni settanta) è l’ennesimo, bellissimo, portabandiera.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

  1. Natural Thing
  2. Out in the Street
  3. Only you can rock me
  4. Doctor Doctor
  5. Mother Mary
  6. This Kids
  7. Love to Love
  8. Lights Out
  9. Rock Bottom
  10. Too Hot to Handle
  11. I’m a Loser
  12. Let it Roll
  13. Shoot Shoot

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