Recensione: Survival of the Sickest

Di Manuele Marconi - 7 Settembre 2022 - 13:00
Survival of the Sickest
Band: Bloodbath
Etichetta: Napalm Records
Genere: Death 
Anno: 2022
Nazione:
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81

I Bloodbath calcano le scene ormai dal 1999, non hanno particolare bisogno di presentazioni. Parliamo di un gruppo formato da membri di altre band molto conosciute (Opeth, Katatonia, Edge of sanity) che dal 2014 presenta dietro al microfono non più Mikael Åkerfeldt, dedicatosi esclusivamente agli Opeth, ma Nick Holmes (Paradise Lost). I nostri vantano una line up di tutto rispetto, ma negli anni non hanno forse soddisfatto pienamente le aspettative che si avevano su di loro: i primi due lavori hanno rappresentato dei notevoli episodi di death metal moderno e contemporaneamente tradizionale, mentre i due album successivi non hanno toccato vette qualitative particolari. Con “Survival of the sickest”, la loro ultima fatica, si presentano dopo quattro anni da “The Arrow of Satan Is Drawn”…l’attesa del piacere sarà essa stessa il piacere?

Il disco, prodotto senza sbavature da Napalm Records, si apre con uno dei due singoli già presentati, ovvero “Zombie Inferno”. Poco da dire: pezzo tritaossa; un tripudio di riff trascinanti. I ragazzi danno prova di essere in gran forma, dando vita ad un brano potente, vario e dinamico, che nel finale rallenta leggermente per dare un po’ di tregua all’ascoltatore, travolto com’è da cotanta veemenza sonora senza indugio alcuno. L’ascolto prosegue con “Putrefying Corpse”, brano inizialmente più roccioso, che poi però dà una bella accelerata; notevole la chitarra strisciante in sottofondo, che avvolge la voce di Nick come le spire di un boa. “Dead parade” è un altro episodio cardine del disco: inizialmente più lento ma che pian piano prende dinamismo e velocità; caratterizzato da molti stop & go e conseguenti pause che danno molta forza alle varie sezioni. Impossibile non citare l’altro singolo “Carved”, che svolge perfettamente la sua funzione: rimane da subito impresso nella testa dell’ascoltatore. Si potrebbe dire che l’album dia il proprio meglio nella prima metà, e non si sarebbe nel torto, ma comunque la seconda parte del disco si attesta su livelli qualitativi elevati, di molto oltre la media, e soprattutto la traccia finale “No God Before Me” fa arrivare alla fine con un pizzico di curiosità. Questo pezzo è infatti molto “sperimentale”: lento, melodico, diverso da quello che ti aspetteresti dai Bloodbath. Potrebbe non piacere a tutti, ma messo come chicca finale non risulta troppo invasivo: può tranquillamente rientrare nei brani flop di un disco nel complesso ottimo, come può essere la sorpresa inaspettata.

Alla fine per gustare il piacere per fortuna non è stato necessario accontentarsi dell’attesa: l’ultimo lavoro dei Bloodbath scorre in maniera perfetta. Un lavoro solido, piacevole e ricco. Il confronto con i primi due potrebbe essere divisivo, ma è la peculiarità degli ottimi dischi: sicuramente il lavoro migliore dopo il 2008.

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