Recensione: Survival Protocol

Di Giovanni Picchi - 10 Dicembre 2025 - 11:00
Survival Protocol
Band: Stillbirth
Genere: Death 
Anno: -2025
Nazione:
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76

Gli Stillbirth, band tedesca fondata ormai nel lontano 1999, con questo “Survival Protocol” giungono alla nona prova in studio ed è un album che rappresenta una svolta rispetto alle precedenti release che vedevano il gruppo cimentarsi in un brutal-slam-death metal basilare e senza fronzoli ma caratterizzato da una certa personalità, a partire dalle copertine fantasmagoriche dei loro album ma anche per i loro testi socialmente impegnati, “forti”, senza peli sulla lingua e apertamente pro-cannabis; il tutto condito da un atteggiamento goliardico, ironico e un po’ guascone che per taluni aspetti corrisponde all’alter ego dei Tankard in salsa brutal-surf-death-metal, come sogliono definirsi e da come si può osservare dai bermuda personalizzati, sempre indossati nelle foto in spiaggia, nei video promozionali e nei focosi live set. Dopo il primo album e un breve scioglimento nel 2006, la band, capitanata dal cantante (fino al 2014 anche chitarrista e unico membro originale superstite) Lukas Swiaczny, ha pubblicato tre album tra il 2008 e il 2015, autoprodotti e un po’ acerbi ma comunque dotati di un buon feeling e una discreta tecnica seppur con una produzione non proprio all’altezza.

Accasatisi presso la Unique Leader, la band ha dato alle stampe altri tre album che li ha visti fare un notevole passo in avanti soprattutto nella produzione e nella definizione di un loro percorso, quasi pienamente collocabile in quel filone brutal-deathcore che include bands ormai affermate che va dagli Organectomy ai più canonici Distant, Signs Of the Swarm o Infant Annihilator tanto per citarne alcuni. Album come “Annihilation of Mankind” (2018) e “Revive the Throne” (2020), inframmezzati dalla raccolta di vecchi brani reinterpretati intitolata “Back to the Stoned Age”, non facevano altro che confermare questa tendenza. Pertanto le caratteristiche erano tipiche del genere, con un growl profondamente gutturale alternato ai soliti pig-squealer, strofe brevi messe ben in evidenza sul resto della musica, un songwriting nervoso ed epilettico tra continue accelerazioni e rallentamenti, ritmiche possenti e assenza quasi totale di assoli, parti strumentali o divagazioni melodiche: il tutto sì ben fatto e costruito ma niente che facesse gridare al miracolo o farli emergere dalla massa. Con l’album successivo, invece, “Homo Deus”, pubblicato due anni or sono, gli Stillbirth hanno affinato le lame introducendo elementi più variegati per cui la struttura delle canzoni, pur mantenendo alto il tiro per la brutalità della proposta, si è arricchita di parti più tecniche, assoli, ritmiche più cadenzate e un songwriting più accessibile e distinguibile.

Questi aspetti sono stati maggiormente amplificati in questo “Survived Protocol”, uscito il 31 ottobre per la Reigning Phoenix Music, che riprende e termina la trilogia sci-fi iniziata proprio con “Annihilation…” e continuata con “Homo Deus”, ambientata in un mondo alieno in cui i protagonisti, sopravvissuti ad un’apocalisse nucleare sulla Terra e costretti a fuggire nello spazio, colonizzano con la violenza un nuovo mondo sconfiggendone gli abitanti, attuando così il “protocollo di sopravvivenza” del titolo del disco.

Musicalmente parlando, quest’ultimo album rappresenta, come accennato all’inizio, una nuova fase nella carriera del gruppo tedesco. Esso gode di una maggiore distribuzione e beneficia oltremodo di una produzione più cristallina e moderna, essendo stato registrato e mixato presso gli ormai blasonati studi portoghesi Demigod Production (Gaerea, Organectomy, Pyrexia, Analepsy e altri) che mettono ancora più in evidenza le capacità tecniche della band. L’approccio ora si avvicina a quello dei connazionali Cytotoxin o a bands come Dying Fetus, Rings of Saturn e Cattle Decapitation, ma rispetto a questi c’è una palese ricerca di rendere le canzoni più easy listening e memorizzabili, avvicinandoli anche a gruppi più diretti e meno brutali quali Despised Icon, Mental Cruelty o Enterprise Earth. Si tratta di nove canzoni che suonano fresche e proiettano i nostri verso orizzonti più ampi grazie anche all’apporto di elementi musicalmente trasversali che arricchiscono il songwriting e spezzano l’approccio monostilistico del passato brutal-deathcore, rendendo quindi l’ascolto più interessante e tenendo alta l’attenzione per tutti i 35 minuti di durata. Già l’opener “Existence Erased”, con i suoi continui cambi di tempo e la successiva “Trapped in Darkness”, introdotta da tastiere evocative e dalle forti tinte melodiche, ci introducono pienamente nel concept fantascientifico dell’album e nella nuova anima della band, con le trame chitarristiche dei due axeman Leonard Thoma e Szymon Skiba (entrati nel progetto solamente nel 2021 e nel 2022) ben congegnate e fortemente amalgamate tra esse, che sembrano fare anche l’occhiolino alle soluzioni tipiche del death metal melodico. E così anche le successive “Thrones of Bones”, con i suoi break e le ritmiche più cadenzate, e la più veloce“Apex Predator” mirano a rimanere in mente all’ascoltatore con il loro approccio quasi groove, gli assoli brevi e melodici e la varietà canora di Lukas, sempre brutale ma più riflessiva e meno istintiva, ben inserita tra le varie parti. La canzone simbolo di questo nuovo modo di essere brutal è “Baptized in Blood”, primo singolo e promossa anche da un divertente video, che inizia con chitarre acustiche in pieno stile flamenco (facendomi ricordare alcune soluzioni già udite dai thrasher spagnoli Impureza), inframmezzate da stacchi grind brevissimi, per poi dilungarsi su varie strutture formate da refrain e strofe orecchiabili e brevi assoli melodici. Anche “Cult of the Green”, “Sacrificial Slaughter” e la title-track risultano più incentrate sulla ricerca melodica e sull’abilità del cantante, che mette le sue doti canore al servizio della canzone tra cantato growl, screaming e pig-squealer e che si esalta maggiormente nei mid-tempo, che diventano maggioritari in tutto il disco e che forse alla lunga potrebbero anche risultare una scelta troppo eccessiva rispetto ad un passato in cui dominavano più brutalità e velocità. La conclusiva “Kill the Rule” è ancora più cadenzata e lenta nel suo incidere e pone fine comunque ad uno splendido concept (i contenuti non si discutono) e ad un album sicuramente più accessibile e che apre una nuova strada per la carriera della band teutonica. Obbligatorio dargli un ascolto per tutti gli amanti del death metal a 360 gradi.

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