Recensione: The Accuser

Di Daniele D'Adamo - 2 Novembre 2015 - 22:49
The Accuser
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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82

Tre anni da “Becoming”, tre anni durante i quali, in base alle loro stesse dichiarazioni dell’epoca, gli Abigail Williams avrebbero compiuto un altro step evolutivo in direzione di chissà quale area contaminata extra-metal.

Invece, quasi a sorpresa, l’infernale creatura di Ken Sorceron tira fuori dal cilindro un mostruoso album di black metal stellare: “The Accuser”. Le contaminazioni ci sono, sì, ma sono autoimmuni, nel senso che rimandano all’ancestrale furia demolitrice del genere, al cosiddetto raw black metal: un turbinio titanico di riff convulsi, aggrovigliati su se stessi, dimensionalmente spropositati, innestati sulla travolgente follia dei blast-beats. Sovrastati dalla disperata interpretazione vocale di Sorceron, condottiero non-umano di sterminate orde demoniache volte alla definitiva annichilazione dell’Uomo e delle sue spaventose malvagità.   

“The Accuser”, seppur timbrato a fuoco dallo stile unico e inimitabile del combo di Washington, è un coacervo di ramificate influenze. Le più disparate, le più imprevedibili. Tuttavia, influenze. E non, come superficialmente affermato, contaminazioni. È bene ribadirlo poiché ciò è la caratteristica peculiare del platter: quella, cioè, di essere una ciclopica opera di black metal. Brani come “Of The Outer Darkness” rappresentano l’ultima frontiera della dissoluzione molecolare, della frammentazione dei quark, della dispersione cosmica. Orridi, sterminati muraglioni di suono si ergono come strutture sghembe, non-euclidee, distese su infiniti altipiani di caos, di dolore, di sofferenza, di nichilismo, di rifiuto della vita così com’è stata organizzata sulla Terra.     

Gli Abigail Williams sono in grado di riprodurre accelerazioni da insopportabili G, e parimenti di rallentare con sulfuree decelerazioni, impregnate da acidi lisergici per ampliare indefinitamente la capacità di estraniazione della realtà, di disegnare con innominabili propaggini mentali visioni apocalittiche, deliranti nel rappresentare le emozioni che nutrono il black metal da sempre: nichilismo, misantropia, introversione, strazianti sentimenti che si alimentano direttamente dal male di vivere. Ma, nella continuità inattaccabile della corazza nera, s’insinuano due brani clamorosamente fuori dal coro: il rock melodico di “Will, Wish And Desire” e il pop acidissimo di “Nuummite” il quale, a tratti, ricorda addirittura David Bowie nelle sue stranite vocalizzazioni da allucinazione (sic!). Due canzoni talmente diverse, aliene, distanti dalle altre da formarne parte integrante e sostanziale per un tutt’uno memorabile.        

Però, perlomeno a parere di chi scrive, lo sprofondamento finale nell’abisso della sofferenza, perenne realtà di una vita ingannevole intrappolata nei suoi stessi falsi luccichii, si raggiunge con song come “Godhead” e “Forever Kingdom Of Dirt”; esagerazioni sonore che travalicano lo spazio e il tempo. Talmente veloci, nelle battute di un drumming impossibile da quantificarsi, da distorcere il tempo stesso onde potersi incuneare nelle sue pieghe e, quindi, perdersi nel Cosmo, lanciando a raggera i propri atomi nel vuoto dello spazio interstellare ove giace in agguato la materia oscura. E questi sono i brani più rispettosi dei dettami tipologici dell’ultra fast black metal, seconda fattispecie di sottogenere black che si rinviene con una raggelante sequenza di morte in “The Accuser”. Il tutto, riassunto come in un compito scolastico nel bombardamento termonucleare di “Lost Communion”, sfascio assoluto ed eccelso.

Inarrivabile alla maggior parte degli altri ensemble in circolazione, la capacità di fabbricare incubi, immagini oniriche, sogni ad occhi aperti, identifica il grande talento degli Abigail Williams, giacché riescono in ciò in ogni occasione: dai lentissimi break d’intermezzo alle fulminanti galoppate oltre la sfera del suono.

Anzi della luce. Anzi della tenebra.

Daniele D’Adamo

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