Recensione: The Aristocrats

Di Valter Pesci - 9 Marzo 2015 - 10:00
The Aristocrats
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2011
Nazione:
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83

Avete presente quando succedono quelle cose epocali che lasciano in ognuno di noi un inquietante stato d’animo? Quella sensazione che a volte ci nasce dentro quando succede o prende forma qualcosa la cui bellezza sembrava fino a un determinato momento inafferrabile o inimmaginabile, nonostante tutti gli elementi necessari a metterla alla luce fossero sotto i nostri occhi da tempo, quasi scontate e tangibili?
Nel 2011 ha luogo proprio uno di questi ammalianti avvenimenti in ambito musicale, con la nascita del super gruppo The Aristocrats. Semplicemente, tre guru dei propri strumenti decidono di unire le proprie forze e menti creative per dare vita a qualcosa di unico. Marco Minnemann (uno dei pochi geni della batteria, all’attivo album con Joe Satriani, Paul Gilbert, ecc…), Bryan Beller (bassist mostruoso, ex-Steve Vai, James LaBrie, ecc…) e Guthrie Govan (ex-Asia e collaboratore occasionale con Steven Wilson), stringono un sodalizio solido e, si spera, più duraturo possibile, fondato sulla libertà espressiva di cui ogni membro è maestro incontrastato, il tutto appoggiandosi su una base fusion che rappresenta il filo conduttore che lega i tre in questa loro nuova ed elettrizzante avventura.

Dopo la dovuta introduzione alla band, veniamo finalmente alla scoperta di questo curioso e atteso debut album: l’omonimo The Aristocrats.
Boing!… I’m In The Back”: subito un bel riff seguito da un groove accattivante e ovattato ci obbliga a tenere il ritmo con il piede. Dopo qualche battuta di acclimatazione, la coltre di ovatta che avvolge il sound è spazzata via da uno sblocco di volume e il tutto diventa ancor più trascinante. Il basso distorto di Beller e il riff strafottente di Govan ci dimostrano immediatamente che la componente ironica nella musica creata da questi tre loschi individui non verrà mai lesinata. Un break soft lascia spazio a un po’ di sana improvvisazione, all’interno della quale ogni membro si ritaglia il suo spazio nel momento più opportuno affiorando dal coro. Accelerazioni, condite da preziosismi tecnici e ritmici, e pause improvvise s’inseguono poi fino alla fine del brano.
Dopo un inizio così interessante non si può che fremere dalla bramosia di proseguire nell’ascolto con la curiosità e la certezza che il cammino che ci aspetta sarà costellato di belle sorprese.
Giungiamo quindi con la bava alla bocca alla seconda incisione del platter: “Sweaty Knockers”. L’incipit è affidato ad un riff in tipico stile Guthrie, arricchito da armonici artificiali e da un sapore prog-fusion che non lascia scampo. Una variazione di tempo e mood introducono un altro viaggio tra le sei corde magiche del nostro chitarrista, mentre la sezione ritmica in sottofondo svolge un lavoro da manuale. Un’altra caratteristica che ricorrerà molto spesso nelle composizioni dei tre, è l’attitudine ad alternare il lieve e sublime effetto di tocchi leggerissimi, al limite del “pianissimo” di classica memoria, con cambi di ritmo, velocità e volume di grande impatto. Inutile ribadire che anche qui troviamo questa azzeccata soluzione stilistica. Gli assoli di Govan riescono sempre a stupire e denunciano ogni volta aspetti tipici di un sound unico e immediatamente identificabile, tanto personale quanto irripetibile. Dopo un tagliente solo distortissimo di basso e la ripresa del groove principale, decide di scendere in campo sul serio il Maestro tedesco delle pelli con un solo stracolmo di magnificenza batteristica e un suono che non può mai stancare. Da ascoltare e riascoltare all’infinito.

Il terzo brano, “Bad Asteroid”, è probabilmente uno dei più catchy dell’intera composizione. Un pezzo, per intenderci, che rappresenterebbe il perfetto primo singolo tanto caro agli artisti commerciali, il quale, pompato all’infinito col fine di promuovere al meglio il proprio lavoro, spesso finisce per ronzare nelle radio o in tv per anni rivelandosi un’incredibile fonte di reddito. Purtroppo per Beller & Co. questo non sarà il caso, ma chi se ne frega! La musica sarà loro sempre e comunque grata. Gustiamoci questa delizia: l’ambiente e l’atmosfera dipinta dai tre artisti è avvolgente e sprizza tepore da ogni nota, a questo groove da manuale si attacca, ancora una volta a modo suo, magistralmente, uno dei riff più ispirati del cd. Mentre il folletto delle sei corde si libra in soli di un altro pianeta, i due addetti alla sezione ritmica continuano a fare del loro meglio: linea di basso corposa e invadente quanto basta, quasi giocherellona, e un Minnemann sempre da 10 e lode a dare pepe al ritmo senza eccedere nell’esuberanza. Giunge presto il momento in cui il drummer potrà farsi largo, con un bel botta e risposta chitarra-batteria. Prima del finale, c’è ancora tempo per un bell’assolo in tapping quasi al limite del dissonante ma d’impatto veramente interessante.
La traccia numero quattro è “Get It Like That”. Intro in punta di piedi, di una leggerezza quasi onirica. Subito dopo, il genio di Guthrie affiora nuovamente con un tema dei suoi, tanto gusto e anche un bel fingerpicking fuso a slide e arpeggi vari vanno ad arricchire la linea melodica. Ancora una volta, l’impostazione del pezzo è a stile jam improvvisata (tanto da consentire la massima libertà di espressione in fase live). Marco Minnemann, oltre a dispensare il solito piacere a ogni tocco di bacchetta sulle pelli, qui decide di andare oltre e inserire tanto altro nel suo playing: unisoni con la melodia principale, fill vari, bei passaggi. Il finale vede spuntare anche un riff più pesante, con tanto di doppia cassa stile “pala di elicottero” a fare da sottofondo. Le ultime battute sono caratterizzate da stacchi e cambi di tempo che metteranno alla prova il vostro timing quando, presi dall’entusiasmo, vi ritroverete a picchiettarle sul volante della macchina od ovunque vi troviate.
Furtive Jack” torna a trafficare con la spiccata ironia che contraddistingue ogni membro del gruppo, da quella più bigherellona del teutonico drummer, a quella più camuffata e pacata dell’americano, passando da quella tipicamente snob del guitar hero inglese. Se chiudete gli occhi, non sarà difficile immaginarsi un ipotetico Jack in una tuta alla Diabolik, aggirarsi con fare furtivo (appunto) nei pressi di qualche cassaforte; anche se molto probabilmente l’azzeccatissimo titolo giungerà da qualche aneddoto on the road molto meno serio dell’immagine appena ipotizzata. Tornando al brano, la sempre esuberante quanto unica chitarra trascina ancora una volta il pezzo con una certa libertà, lasciandosi scappare preziosi fill e lick anche quando esce un po’ di scena, il lavoro svolto dagli altri due maestri è sempre preciso e puntuale, di una qualità irraggiungibile. Bryan esce dal coro con un solo che ci accarezza i timpani, spianando la strada ancora una volta a un killer solo di GG, mentre il contesto, scaldandosi ulteriormente, elettrizza ed esalta anche il funambolo tedesco, permettendogli di dispensare un po’ di sapere, gusto e stile in un break solistico di tutto riguardo. Si riprende poi con la struttura tipica di tutti i brani “aristocratici”, il riff portante torna in scena per condurre alla chiusura.
La sesta fatica del cd porta un titolo bizzarro (tanto per cambiare): “I Want A Parrot”. L’intro presenta un tempo compassato e tranquillo che viene bruscamente agitato dopo qualche battuta, prima di tornare ad accarezzare la soglia del silenzio poco dopo; ancora una volta i nostri eroi sbandierano e sottolineano chiaramente questo loro inconfondibile marchio di fabbrica. La sezione centrale, dedicata a una sorta di improvvisazione concordata, ci regala qualche cambio di tempo e varie finezze chitarristiche. L’alternanza di frasi strumentali sussurrate e movimentate continua a rappresentare la linea guida del pezzo lasciando, però, come da copione, il giusto spazio a ogni interprete per esprimersi al meglio in giochini, botta e risposta e fraseggi.
See You Next Tuesday” si apre con un saggio di tempistica, groove e tocco del gigantesco drummer e ci dà un piccolo assaggio di cosa ci aspetterà in questa scoppiettante manciata di minuti. Marco fatica a rimanere al suo posto e il suo drumming esuberante sembra mordere la briglia, nel frattempo il re dei riff accattivanti, Mr. Guthrie Govan, ne tira fuori uno dei suoi, cadenzato e trascinante, con tanto di armonici cantilenanti. Inutile ribadire il livello qualitativo delle parti solistiche e il lavoro sempre accurato, presente e ineccepibile del bassman americano.
La penultima canzone dell’album, una delle più geniali e riuscite, si intitola “Blues Fuckers”. Sapete quando si dice “il titolo è tutto un programma”? Ecco, questo è esattamente il caso. Inevitabilmente, presentandosi in questo modo, non può far altro che accrescere ulteriormente la curiosità di ogni ascoltatore di scoprire in che modo “fotteranno il blues”, vediamolo insieme. L’inizio è costituito da un tipico pattern blues, suonato però a una velocità ragguardevole, il quale rappresenterà il riff portante di tutto il brano. Minnemann decide di far diventare il blues il genere più tecnico esistente, esibendo un playing tutt’altro che scarno o semplicemente funzionale. Segue un ulteriore ironico break ritmico di chitarra con tanto di effettistica che sfiora l’irrisorio e ricorda un po’ i suoni onomatopeici dei cartoni animati. Riprende poi il riff principale in pulito, con un crescendo d’intensità e tempistica. E ora, Marco sale di nuovo in cattedra sciorinando varie finezze solistiche, sempre coadiuvato da un caldo e rigoroso Beller al basso. Tanto per portare ancora più all’estremo questo bluesettino, la coda ripresenta il famoso riff ma stavolta con un tiro addirittura maggiore e aumentando ulteriormente i bpm. Dopo qualche straordinaria battuta, uno stacco seguito da una breve pausa fanno da preludio allo strafottente finale: un altro tipico lick blues, però stavolta suonato secondo le direttive e i cliché dogmatici del genere, con tempo e sentimento appropriati; il giusto e rispettoso (?) contentino dopo una reinterpretazione del pionieristico genere assolutamente trasgressiva. Pezzo veramente straordinario!
Siamo arrivati alla traccia conclusiva di questo debutto, l’evocativa e atmosferica “Flatlands”. L’arpeggio iniziale ricorda un po’ qualche lavoro del vecchio Joe Satriani, basso e batteria si limitano ad accompagnare con stile la melodia. Il tempo è molto lento e consente ai vari membri di puntare il focus sul pathos, la fase solistica centrale vede un Guthrie molto ispirato (anche dal solito Steve Vai), esibirsi in un gustoso solo blues style (quello canonico questa volta). Tecnica e maestria emotivo-compositiva si fondono alla perfezione. Gli ultimi minuti ripropongono il riff iniziale, con qualche piccola variante, che va piano piano svanendo in un climax discendente di tempo e intensità fino alla malinconica chiusura.

Beh, che dire… è ora di tirare le somme. Riallacciandoci alla riflessione iniziale, sembra veramente impossibile che una band del genere non sia comparsa prima del 2011, che musicisti del genere non ci avessero pensato prima. Il mondo della musica aveva bisogno proprio di questo e la sensazione, ascoltando questo gioiellino, è di una sorta di sollievo, come se finalmente fosse arrivato qualcosa che tutti aspettavano da anni, come quando si inserisce l’ultimo tassello di un puzzle, come se ci si sentisse tutti un po’ più completi. Siamo di fronte a un gruppo unico che fa della gioia di fare musica, della genialità dei suoi componenti e della qualità assoluta i suoi punti di forza. Non si può dire altro che: benvenuti The Aristocrats, lunga vita a voi e alla vostra musica!

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