Recensione: The Armageddon Theories

Di Matteo Bovio - 29 Dicembre 2001 - 0:00
The Armageddon Theories
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Anno: 1999
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85

Questo CD è a dir poco fenomenale, un’uscita veramente fresca ed innovativa. Negli ultimi anni sono state sicuramente di numero esiguo le produzioni Death metal che hanno saputo aggiungere qualcosa a quanto già fatto: “The Armageddon Theories” risulta tra queste.

La cosa più difficile nel recensire questo album è individuare le possibili influenze che riscontrabili: gli stili e i generi più diversi sembrano essersi dati appuntamento per dare vita ad un bellissimo lavoro. Come già anticipato il sostrato è il Death metal: non quello canonico, bensì quello ultra-tecnico. Tra le influenze primarie quindi inserirei gli Atheist, i Pestilence, gli Acid Death e ovviamente i Death, soprattutto quelli di “The Sound Of Perseverance”. Tuttavia ridursi a questo vorrebbe dire sminuire una ricerca sonora veramente al di sopra della norma.

La componente progressiva è probabilmente quella che predomina in tutto il CD: la cosa più rara nelle 8 tracce sono i quattro quarti, sostituiti abilmente da tempi dispari incastrati tra di loro in improbabili combinazioni. E qui, sarà azzardato, ma credo ci sia lo zampino dei Dream Theater… La tecnica dei tre musicisti è fuori da ogni possibile contestazione: unico punto debole è forse la voce, un po’ monotona, registrata dallo stesso batterista. A questo proposito subentra un piccolo problema: finchè la line-up del gruppo rimane invariata, sarà veramente impossibile vedere un’esecuzione dei Theory In Practice dal vivo. Il batterista si cimenta anche nella voce, le parti di tastiera sono affidate al bassista e talvolta troviamo almeno 3-4 linee di chitarra sovrapposte!!!

L’utilizzo delle tastiere è a mio parere impeccabile: lungi dall’essere semplici pad di sfondo, si lasciano andare in parti anche piuttosto elaborate. Ottima poi la scelta dei suoni, che risalta anche grazie ad una produzione pulita e ben fatta. Particolare il suono di batteria, ma anche lo stile del batterista stesso: è l’elemento dell’album che più ha faticato ad entrarmi in testa.

Se fossi in voi mi accaparrerei subito una copia di questa produzione perchè è unica nel suo genere e con un paio di accorgimenti in più sarebbe stata un semi-capolavoro. Le idee sono ancora un attimino scollegate tra di loro, ma siamo solo al secondo album, e per una proposta come questa di pratica ce ne vuole molta. Credo comunque che i Theory In Practise abbiano dato prova di essere dei grandi musicisti e degli altrettanto grandi compositori. Soprattutto hanno dimostrato come ci siano degli angoli del metal ancora da esplorare per intero, sui quali poco e stato fatto e molto c’è ancora da fare; alla faccia di chi dice che il metal è morto.
Matteo Bovio

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