Recensione: The Call of the Iron Peak

Di Daniele D'Adamo - 28 Agosto 2020 - 0:01
The Call of the Iron Peak
Etichetta: Season Of Mist
Genere: Doom 
Anno: 2020
Nazione:
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78

The Devil’s Trade è un progetto che involve una sola persona, Dávid Makó (voce, chitarra, banjo), musicista magiaro che si avvale di volta in volta di colleghi ospiti per sviscerare quanto meglio possibile ciò che si può dipingere come folk doom. “The Call of the Iron Peak” è il terzo full-length di una discografia partita nel 2014, che ha contrassegnato una carriera regolare e proficua sì da essere notata dall’etichetta specializzata Season Of Mist, che propone spesso materiale, sempre di alta qualità, ai limiti se non oltre i dettami del metal tradizionale.

Folk doom, cioè i racconti di antichi rituali di popoli quali i nordamericani Appalachi (‘The Iron Peak’), i più vicini ungheresi e gli abitanti della Transilvania, trasformati in musica. Musica che rifugge a ogni catalogazione convenzionale ma che si può ricondurre al doom per via della sua enorme carica visionaria, nonché per la sua attitudine naturale a scavare lentamente, e a fondo, nelle infinite pieghe dell’animo umano.

‘The Iron Peak’, già. L’opener-track che, con il suo andamento melodioso epperò sofferto, s’insinua immediatamente sotto la pelle con una decisione non comune, quest’ultima figlia evidente della bravura di Makó che, grazie alle sue linee vocali sofferte e pregne di dolore – a tratti somiglianti a quelle del grunge – , aiuta, e non poco, a soffiare la vita nella struttura musicale nel suo insieme.

L’assenza quasi totale sia della strumentazione elettrica classica, sia della batteria, spingono i versi delle canzoni verso il Mondo dei Sogni; ideale, ultima frontiera nella quale soffermarsi per riflettere sul proprio vissuto prima della dissoluzione eterna.

Non solo strumenti etnici, però. A tenere assieme il tutto c’è una robusta orditura elaborata dalle tastiere, a volte appena accennate, a volte più percepibili, ma che in ogni caso non esulano mai dal loro compito sotterraneo. Così come il basso, etereo legaccio delle note, delle armonie e delle dissonanze; il quale svolge con fermezza le sue trame in virtù del fatto che, forse, a parere di chi scrive, sia l’unica gomena a trattenere i The Devil’s Trade alla banchina del doom inteso nella sua accezione metallica.

A mano a mano che si srotolano le canzoni del disco, sembra quasi predominare il Makó cantautore, e questo poiché, alla fine, quello che regna in “The Call of the Iron Peak” è la sua drammatica voce (‘Expelling of the Crafty Ape’), accompagnata dalla chitarra soltanto, peraltro dal suono tutt’altro che dimesso. Ponendo la massima attenzione a ciascun brano, nondimeno, si nota che in realtà la componente musicale dell’LP non è affatto sottile, inconsistente. Certo, il Nostro si erige come un solitario pinnacolo di roccia sovrastante oceani e deserti, con che ribadendo continuamente la propria identità senza che il resto della componente musicale prenda il sopravvento.

Ecco che allora viene spontaneo lasciarsi andare per naufragare in tracce estremamente coinvolgenti, in cui il male di vivere pare essere l’espressione più vera. Un altro tassello che certifica la sussistenza testuale del doom per indicare al cantore di Budapest la via maestra.

Come rovescio della medaglia, si può rilevare, quasi subito, una certa reiterazione delle particelle fondanti l’album. Tuttavia, la notevole originalità dello stile di Makó è un qualcosa che non si può non sottolineare con forza quale principale segno caratteristico di un lavoro unico nel suo (non)genere. Ma non per questo esulante dall’essere affascinante, coinvolgente, ideale veicolo per calarsi in epoche arcaiche in cui la musica era solo e soltanto un cozzo di strumenti primitivi o appena evoluti (‘The Call of the Iron Peak’).

Assolutamente innovativo.

Daniele “dani66” D’Adamo

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