Recensione: The Day of Return

Di Stefano Usardi - 8 Giugno 2018 - 9:25
The Day of Return
Band: Ephyra
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2018
Nazione:
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70

The Day of Return” è il terzo album dei comaschi Ephyra, attivi ufficialmente dal 2009. La bio pervenutami insieme all’album li descrive come un gruppo di death melodico con influenze folk ed epic, ma se la componente folk si sente distintamente durante l’ascolto quella epic mi si perde un po’ per strada, affiorando solo molto alla lontana e profumando sporadicamente qualche fraseggio qua e là. Al di là delle etichette va dato atto al sestetto di essere migliorati sensibilmente rispetto ai loro precedenti lavori e di aver realizzato un album compatto e ben eseguito, che pur non rientrando particolarmente nelle mie corde musicali e peccando qua e là di una certa prevedibilità è riuscito comunque a intrigarmi con una resa sonora robusta e una proposta solida, impreziosita dall’ammaliante voce pulita (affiancata dal classico growl maschile per creare il più canonico degli accostamenti, anche se la resa finale di Francesco mi è sembrata un po’ al di sotto di quella della sua controparte Nadia) e una concezione dell’elemento folk che non si incontra molto spesso. Anziché sfruttare gli strumenti della propria terra per fondere il folklore locale con la musica metal, infatti, i nostri decidono di fare il giro lungo, per così dire, inserendo nel loro suono strumenti etnici dalle provenienze decisamente variegate (ma che si concentrano soprattutto in aree quali Mongolia, Cina e Giappone) per guidare l’ascoltatore in una sorta di viaggio sulle orme di gente come Marco Polo, alla scoperta di melodie estranee assorbite dalla verve dei nostri lombardi. E la cosa funziona. Non solo perché la componente folk è ben dosata, e anziché appesantire i brani con le sue continue intrusioni si limita a screziarli in modo abbastanza equilibrato, ma soprattutto perché tale fattore si incastra armonicamente al resto degli strumenti creando un unicum piacevole e molto discorsivo.

Un riff asettico apre l’album introducendo la title track; la coppia di voci entra in gioco subito, alternando frenesia e dolcezza (anche se, mi si conceda un appunto assolutamente personale, questa storia della doppia voce maschio growl/femmina pulita sempre uguale a se stessa dovrà finire prima o poi, non ne posso più) in una traccia relativamente breve ma anche piuttosto articolata, prodiga di stop & go, rallentamenti e ripartenze che si rincorrono e si intrecciano per tutta la sua durata. Niente male, anche se l’intesa tra le voci è perfettibile. Con “Your Sin” la componente folk apre le danze su una canzone ritmata che inizia a spostare l’attenzione su melodie più est-europee, soprattutto quando sale in cattedra Nadia; l’ultima parte del brano, invece, introduce i primi elementi prettamente orientali, con un rallentamento dalla cadenza quasi zen prima del finale più robusto. “Run Through the Restless Fog” procede più o meno sulle stesse coordinate, smorzando la componente danzereccia della traccia precedente pur mantenendosi piuttosto ritmata; le melodie si fanno per certi versi più distese, per guadagnare una certa robustezza più carica di groove durante le rapide incursioni di Francesco. “Wayfarer” riparte a spron battuto, miscelando sapientemente agilità chitarristica, melodie folk e condendo il tutto con accenni dal retrogusto trionfale e interessanti pennellate vocali sorrette da una sezione ritmica puntuale e in palla, mentre con “Sublime Visions” i nostri ci conducono nel cuore dell’Asia. La traccia si apre, infatti, con la calma introspettiva del tipico canto gutturale di Tuva accompagnato dalla melodia di un flauto; in meno di un minuto entrano in gioco anche gli altri strumenti, confezionando un pezzo musicalmente molto affascinante in cui i cori acquisiscono un peso specifico di primo piano e si sostituiscono al normale cantato. Dopo questo gustoso intermezzo si passa a “Being Human”, aperta da melodie tipicamente nipponiche che torneranno più volte durante il minutaggio; la traccia è tra le più folk-oriented dell’album, con un andamento brioso e danzereccio intervallato da sporadici fraseggi leggermente più cupi, e con la sua carica propositiva funge da ideale contrappunto alla precedente, più soffusa ed evocativa. Con “The Spirit of the Earth” le melodie si fanno più arcigne e l’aria inizia a profumare, soprattutto nella parte centrale (certo, molto alla lontana, ma meglio di niente…), dell’epicità cui si accennava prima. Il brano procede a velocità alterne, affiancando rallentamenti e rapide accelerazioni e ponendo sotto i riflettori la performance di una sezione ritmica solida e della solita Nadia, autrice di una prova convincente. Un riff arcigno apre l’apparentemente più cadenzata “Dance Between the Rocks”; in realtà l’illusione dura un minuto, con l’improvvisa accelerazione folk che scompagina un po’ le carte. Come suggerisce il titolo, la canzone danza tra velocità e toni diversi e mette in mostra dei begli intrecci vocali tra pulita e growl, con i due cantanti che si compenetrano in modo efficace sorretti da chitarre ora scorrevoli e ora più tese. Il suono del flauto aleggia su “Infinite Souls”, dai ritmi tranquilli e quadrati e dalle forti inflessioni folk, che si esplicano soprattutto durante le incursioni strumentali. Il tono della traccia si mantiene decisamente entro limiti bucolici – il growl qui compare poco e in modo molto smorzato – con melodie distese e volteggianti che si appropriano della scena (coadiuvate dal già menzionato flauto) dirigendo a loro piacimento il comparto metallico, confezionando così una canzone per certi versi rilassante e molto godibile ma a mio avviso un po’ sottotono.
Il compito di far calare il sipario sull’album spetta a “True Blood”: dopo un bell’arpeggio molto folk, le chitarre attaccano seguite a ruota dal vocione acido di Francesco, dispensando una sana dose di botte che si stempera solo con l’ingresso in scena della voce pulita. La canzone si mantiene su tempi briosi e incalzanti, col gruppo che in più di un’occasione prende l’iniziativa anziché lasciarsi condurre dalla coppia di voci come invece era successo per buona parte dell’album, permettendo agli Ephyra di congedarsi dal loro pubblico con un ottimo brano: diretto, sferzante e molto deciso.

In conclusione posso dirmi soddisfatto di questo lavoro: “The Day of Return”, pur non dicendo nulla di nuovo, scivola piuttosto bene, e anche se appartiene ad un genere che ormai non mi dice più granché da tempo sono sicuro che potrà fare la felicità di parecchi ascoltatori. Avanti così.

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