Recensione: The Final Departure
Nati nel 2002 come band di thrash metal, i norvegesi No Dawn hanno via via modificato la loro proposta musicale giungendo, con il debut-album “The Final Departure”, a un death metal rabbioso, brutale, ma non per questo povero di contaminazioni varie. Non c’è molto da analizzare, però, in merito alla loro evoluzione stilistica poiché, nonostante i due lustri di carriera, sino a ieri nel loro carniere c’erano soltanto tre demo (“No Dawn”, 2004; “Necessity”, 2006; “Violence Is Gold”; 2008) e un EP (Drain To Revive, 2010).
Le contaminazioni predette riguardano, soprattutto, un uso abbondante di orchestrazioni dalle forti tinte sinfoniche, tradizionalmente più legate al black invece che al death. Ma, ormai, quest’ultimo accetta intrusioni sino a qualche anno fa inimmaginabili. Come, per esempio, l’elettronica o, nel caso specifico, la musica classica. I No Dawn, come del resto la maggior parte dei loro connazionali, non sono certo degli sprovveduti in materia di metal estremo, e quindi hanno saputo mantenere intatte le coordinate stilistiche di base del genere inventato dai Possessed. Per cui è bene sgomberare subito ogni dubbio: “The Final Departure” è un album di death metal, magari non ortodosso, ma di death metal.
L’ottima opener “Preludium Ex Chaos”, del resto, potrebbe fuorviare chiunque con le sue maligne e ariose tessiture di tastiera, i blast-beats a tavoletta e gli scream assordanti di Tor Erik Simensen. Invece, “Dark Aura” mostra l’inequivocabile, vera natura della formazione scandinava. Merito, soprattutto, dei possenti riff dei due axe-man Paal A. Sandnesmo e Andreas Bruheim che, non venendo meno alla loro estrazione musicale primigenia, lavorano i manici delle loro chitarre con piglio assolutamente thrash, lasciando quindi da parte quei guitarwork (volutamente) confusi e zanzarosi così tipici del nero metallo. Anche Simensen, nondimeno, contribuisce fattivamente alla causa evitando di utilizzare solo lo screaming ma, anzi, gettandosi con efficacia nei vortici magmatici di un growling profondo e bestiale. Lo stesso Sandnesmo, peraltro, lega molto bene, con coerenza stilistica, le sue divagazioni sinfoniche alla struttura di base del sound, evitando di eccedere in magniloquenza e lasciando così l’apprezzamento dei suoi intarsi (“Exit Sanity”) al gusto personale dell’ascoltatore. La sezione ritmica, infine, fa il proprio dovere, spingendo l’ensemble di Steinkjer con furibonda veemenza, rallentando con un coinvolgente groove quando occorre; anche se, ed è un peccato, la produzione della batteria appare piatta nonché poco incisiva. Produzione il cui taglio grezzo e scabro, al contrario, è del tutto appropriato per dare la giusta dose di cattiveria a un sound che, altrimenti, sarebbe da… power metal.
“The Human Curse”, song più che sufficiente se presa singolarmente, lascia un po’ trasparire la difficoltà, da parte dei Nostri, di seguire il filo del proprio discorso. È come se non ci fosse grande chiarezza sulla direzione da intraprendere, come se mancasse – ancora – la precisa idea su come debba essere la foggia definitiva del marchio di fabbrica della band. Effetto che sparisce con “Inevitable Downfall”, micidiale mazzata sulla schiena, ricca di cambi di tempo, possente, vigorosa e trafitta da un devastante riff portante. Un brano che dà una piacevole sensazione di sicurezza in merito ai mezzi sia tecnici sia artistici posseduti dal combo nordeuropeo. Così come “God Ov Torment”, evocante maestosi paesaggi à la Bathory e racconti di uomini leggendari. Di nuovo, “The Voice Ov The Abyss” segna un punto di discontinuità verso un death più tecnico, più arcigno, meno coinvolgente (a parte la stupenda sezione finale…) rispetto a quello dei due pezzi precedenti.
Insomma, i No Dawn le idee per dare al death metal qualcosa di diverso dal solito le hanno. E, a parere di chi scrive, sono anche corrette. Per ora, però, sono troppo altalenanti attorno alla definizione di uno stile davvero personale e in grado di far sviluppare, al suo intorno, una proposta matura e durevole nel tempo.
Daniele “dani66” D’Adamo
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