Recensione: The Great Hatred

Di Daniele D'Adamo - 16 Ottobre 2020 - 0:01

Un lungo viaggio. Ancora. Il terzo, per il duo italo/cileno che risponde al nome di Aphonic Threnody. Un moniker che identifica già di per sé il genere in cui questi ultimi immergono la penna: doom, doom e ancora doom. Ripetizione necessaria giacché essi vengono inopinatamente accostati al death metal, mistero cui è inutile tentare di fare luce data l’approssimazione odierna nel catalogare – con la sempiterna pressione della fretta – i vari act se non a caso, quasi.

“The Great Hatred”, la nuova esplorazione delle radici dell’animo umano, impiega quasi un’ora di musica per espletare il suo compito: mettere a nudo l’universo di emozioni che albergano nel cuore degli Uomini. Lentamente, a volte dolcemente, a volte rudemente. Senza ombra di dubbio, inesorabilmente. Un ragione che trova il proprio lievito fecondante nella volontà di miscelare ai sentimenti la musica. Musica spesso e volentieri baciata dalla melodia, che si aiuta – per ciò – da un abbondante uso delle tastiere e da un approccio a tratti etereo, trasognante, pregno di atmosfere rarefatte ma percepibili in tutta la loro estensione spaziale. Ecco, allora, che, sì, si può scrivere di atmospheric doom metal. Un concetto atto ad allontanare l’ortodossia di uno stile asciutto, secco, minimale.

Fini astrazioni, queste, che abbisognano di qualcosa di concreto per essere comprese sino in fondo. E, allora, quale esempio migliore della stupefacente ‘Drowning’?. Canzone generata appositamente per indurre a sgorgare, nell’anima, quella morbida malinconia, quella latente nostalgia, assieme condizioni necessarie ma non sempre sufficienti per attivare i sensi più reconditi che albergano nelle persone dotate di quella sensibilità che la gente normale non conosce. Come suggerisce il titolo del brano, scivolando sulla lama d’acqua di note/gocce sgorganti da un ottimo songwriting, diventa quasi un agognato privilegio lasciare andare i legami con la misera realtà per poter affondare nei diafani liquidi di un sound totalmente avvolgente, da assorbire a occhi chiusi per percepirne ogni languido singulto. Aiutati, in questo, dalla voce bifronte di Juan Escobar C., assai bravo nell’alternare, a seconda dei sussulti, il growling alle clean vocals.

Accompagnato soltanto dalla chitarra di Riccardo Veronese, Escobar, in qualità di mastermind, riesce a mettere a giorno, in maniera compiuta, tutto quanto nasce e cresce dalle sue cellule cerebrali. Neuroni e assoni sono la carne da cui, come per magia, lampeggiano i pensieri. Occupandosi, oltre alla voce, della maggior parte della musica, egli trasferisce in essa la maggior parte dell’alito vitale, come se “The Great Hatred” fosse il frutto di una mirabile unità d’intenti che osserva un angolo diedro.

Naturalmente, data la classe posseduta dai Nostri, tutte le altre cinque canzoni che compongono l’LP sono di buon livello qualitativo, sia per ciò che riguarda l’esecuzione – scevra da difetti – , sia per quello che concerne la scrittura. Occorre parecchio tempo per entrare in risonanza con gli accordi che, come cascate, trasportano chi ascolta in un piano di percezione assai più profondo di quello tangibile. Circostanza che aiuta, e di molto, la longevità del disco che, di conseguenza, non conosce né noia né insofferenza. ‘The Rise of the Phoenix’, ancora per esempio, con l’energia degli archi trascende l’esistenza, lasciando libera la mente di sognare, di volare, di morire.

Anche se il Creato immaginario della band è immerso nella penombra, colorato di verde scuro, vivere in esso è comunque fulgida ragione di abbandonarsi a se stessi per osservare quello che non sarebbe possibile, senza il supporto di una musica così coinvolgente. Operazione riuscita grazie all’empatia che lega “The Great Hatred” agli strati più nascosti della psiche individuale e all’istintivo talento compositivo degli Aphonic Threnody.

Daniele “dani66” D’Adamo

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