Recensione: The Killing Floor

Di Eric Nicodemo - 19 Novembre 2013 - 19:27
The Killing Floor
Band: Dendera
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2013
Nazione:
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68

Rimanere fedeli a se stessi rinnovandosi è probabilmente la sfida più difficile per qualunque band, anche per gli irriducibili che non vogliono rinnegare il credo di metal defenders.
Partendo da questo incipit, la proposta odierna annovera un nugolo di gruppi che cercano di mantenersi fedeli ai canoni dell’heavy classico, facendo convivere la tradizione con un suono più duro ed affilato, complice una produzione moderna che conferisce maggior impatto agli strumenti. Inoltre, per rendere la formula più varia e meno stereotipata, si aggiungono sporadici elementi direttamente ripescati dalle correnti thrash e power o, addirittura, timidi accenni di growling.
L’esito di questa ricerca conduce a complessi quali i Dendera, monicker proveniente da Portsmouth (UK), che debuttano quest’anno con il qui presente “The Killing Floor” (dopo aver pubblicato l’EP “We Must Fight” nel 2011).

I Nostri, senza indulgere in troppi giri di parole, propongono un metal di matrice classica (NWOBHM), con qualche sferzata thrash, che richiama saltuariamente la Bay Area: per riassumere il concetto basterebbe ascoltare l’opener “For Vengeance”, per nulla sgradevole, che tra un marcia battagliera e un climax di assoli, concede, per così dire, il giusto spazio ad un inframezzo chitarristico, eco che riscopre ricordi lontani (Megadeth).  
L’ispirazione predominate rimane l’immortale Vergine di Ferro: i richiami ai cari vecchi Maiden sono infatti lampanti, partendo dal registro vocale a là Bruce Dickinson, fino ad arrivare agli enfatici vibrati delle chitarre gemelle.
La struttura delle canzoni non presenta sorprese di sorta, proponendoci schemi ampiamente collaudati e ripetuti, secondo un iter prefissato:  l’attacco iniziale si riassume, il più delle volte, in un pattern di chitarra imperniato su ritmiche incalzanti, desunte parzialmente dal thrash, che virano verso lidi più melodici e powereggianti (“Senlac Hill”); fa eccezione la title track, il cui riff d’apertura ha un andamento lento, quasi marziale e tetro, dal retrogusto doom.
Pur con queste lievi differenze, anche nella title song prevalgono tempi più frenetici, spingendosi a tratti verso il dinamismo esasperato che contraddistingue il power metal.

Nulla di nuovo nemmeno sul fronte delle liriche, tanto meno per la struttura del cantato: i temi, spesso eroici, ambientati sullo sfondo di battaglie e combattimenti, sono interpretati dalle voci in bilico tra epici cori e robusti assalti all’arma bianca (grazie all’intonazione aspra e uncinante del singer Ashley Edison in “My Mercy”, emulo di Bruce Bruce, che alterna una voce dura nel prechorus ad una più liricheggiante nel ritornello).
Non possono mancare all’appuntamento gli whammy bars, che in “Hatechild” vengono interrotti da un minaccioso midtempo rallentato, che ringhia al centro della song (da notare il passaggio sincopato, memore di una vecchia song maideniana). Gli whammy bars ritornano alla fine della canzone più alti che mai per adattarsi al meglio al penetrante acuto finale.    
La storia non cambia nemmeno in chiusura del platter: “The Predator” scomoda la solita pletora di ritmiche incalzanti, cori eroici nella migliore (e abusata) tradizione power. Ed è innegabile power metal il guitar work, che ci lascia per consegnare all’audience un chorus orecchiabile.  
“Bridges Will Burn” conferma il trend, ricreando un’atmosfera di tensione, con un secco e scandito drumming, per poi lanciarsi nella prevedibile cavalcata che stancamente propone lo stessa formula (questa volta con l’aggiunta di doppie voci nel duro prechorus).
L’ultima ed ennesima conferma arriva con “Till We Fall”, introdotta della sei corde, il solito manuale di power sciorinato all’infinito, pronto a tramutarsi in una sessione granitica (i primi Metallica), scomodando un basso in solitario. Il tutto si riassume nel ritornello, nella sistematica ritmica ossessiva e nella progressione a là Iron Maiden. Che cosa volere di più? Ma ovviamente una doverosa, personale citazione a “Transilvania”

Concluso l’ascolto, la sensazione che ne deriva è di aver vissuto un veloce quanto esaustivo flashback dell’intera discografia degli Iron Maiden in solo otto tracce, dalle origini (“Iron Maiden”, “Killers”…) ai successi più recenti (“Dance Of Death”).

Influenze a parte, si tratta del solito gradevole platter ottimamente suonato, con una buona prova dietro pelli e microfono ma carente in fase di songwriting e, di conseguenza, senza una propria identità.
E’ possibile fare ancora musica fresca e innovativa senza riproporre ad libitum la lezione dei padri?
Purtroppo, la risposta a questa domanda non la troverete in questo disco, cercate altrove…   

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