Recensione: Themata

Di Fiore De Nicola - 12 Settembre 2020 - 19:22
Themata
Band: Karnivool
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2005
Nazione:
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57

Proviamo ad essere realisti, i Karnivool sono stati uno di quei gruppi capaci di dar vita a due album di assoluto interesse, sia dal punto di vista emozionale, sia tecnico. Se pensiamo a “Sound Awake” o ad “Asimmetry”, possiamo dire che non ci piacciono per gusto personale ma sono album che, volenti o nolenti, dobbiamo far rientrare nello scaffale dell’appassionato perché hanno espresso un modo di fare musica che non può lasciare indifferenti.
Ecco, “Themata” è a sua volta una storia a sé stante.
Partendo dal presupposto che il quartetto australiano veniva da un mondo dove venivano etichettati come “un mucchio di clown” (da qui il nome della band) – all’interno del quale proponeva cover di brani conosciuti in chiave grunge e nu metal senza mai essere ospitati su chissà quale palco… – dopo l’uscita di due EP e la decisione di portare in giro solo pezzi arrangiati di propria mano, arriva finalmente la possibilità di far uscire il primo album, “Themata”, per l’appunto.

L’album si apre con “Cote” che subito riporta alla mente il buon Steven Wilson, forse troppo, ma il lavoro di differenziare in modo così variegato le varie parti della canzone, fanno ben presupporre. Si continua con la title-track che è effettivamente il manifesto dell’album: chitarre incalzanti, cavalcate di basso, linee vocali ricercate e ben gestite in post-produzione, e batteria che fa il suo lavoro… ma non esalta. Perché? È presto detto, il batterista non esiste in line-up e il tutto è arrangiato infatti da Drew Goddard!

“Shutterspeed”strumentalmente ricorda i Mudvayne ammorbiditi dalla voce di Kenny, il quale, comunque, quando deve spingere lo fa a dovere. “Fear of the sky” continua a far salire la tensione dell’album seppur peccando un po’ di ripetitività. Con “Roquefort” Ian esplode nella sua immensa espressività con delle strofe alla Jonatan Davis, e un ritornello che inizia a farcelo inquadrare per quello che sarà. In “L1fel1ke” è ancora Ian Kenny che traina l’interesse portandoci a spasso con inflessione Disturbed nella strofa e Deftones nel ritornello.
L’album, tuttavia, inizia a stancare, ecco allora “Scarabs” un pezzo strumentale tutto in tempi dispari, doppia cassa, stop ‘n go e mosh pit! Bene, a questo punto la quiete arriva dopo la tempesta: “Sewn and silent” è la ballata acustica dell’album. Ci sono tutti i pregi dei Karnivool che saranno: il riuscire a gestire la struttura di un pezzo con varianti, inserimenti e cambi che mantengono alta l’attenzione dell’ascoltatore (vedi il cambio di arrangiamento tra le tre strofe, l’interessante lavoro sulle code del basso, il crescendo dei violini, lo spostamento degli accenti nella chiusura), insomma un pezzo che può essere molto interessante per un musicista navigato come per un quindicenne in piena scoperta del mondo alternative. Arrivati a “Museum” tutto il comparto strumentale inizia a stancare, fatta eccezione per il cantato che seppur ancora acerbo non lascia mai il ripetersi di melodie identiche a se stesse. Con “Synops” pare quasi che la band stessa si stia stancando provando ad inserire una variante alternativa: batteria jungle, riff di basso quasi ipnotico, mood interessante, il testo fuso agli strumenti sembra volerci invitare ad un trip finalmente prog, ma tutto sommato il risultato non è dei migliori. Sicuramente uno dei brani più interessanti dell’album, ma a questo punto, non gratifica più. Si passa infine per ”Omitted for clarity”, un vuoto di 20 secondi, e “Change pt.1”, conclusione un po’ povera, che sembra proporre un gruppo più complesso rispetto a quello che abbiamo ascoltato in queste 12 tracce. Il senso di disorientamento e delusione, tuttavia troverà fortunatamente il suo dissolversi nell’album seguente della discografia dei Karnivool.

“Themata” è quindi un album che ha le sue perle, come i suoi punti bui. Nessun pezzo è brutto di per sé ma preso complessivamente non soddisfa né le orecchie, né la mente né il lato viscerale dell’ascoltatore. È un disco da conoscere se si vogliono capire meglio le radici degli australiani, ma niente a che vedere con quello che hanno creato successivamente.

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