Recensione: Timescape

Di Edoardo Turati - 5 Agosto 2021 - 12:05

“Sssssh…, lo sentite? c’è aria di cambiamento!” Così avrebbe esordito il grande Dick Van Dyke commentando l’attuale panorama musicale italiano. E non perché sta arrivando Mary Poppins, tranquilli, ma perché c’è qualcosa che effettivamente sta cambiando le sorti del metal inteso come mera etichetta musicale. “Contaminazione” è la parola chiave per capire questo trend, la volontà di non farsi catalogare, classificare in un unico genere; togliere i paletti, soverchiare confini ed aprirsi alle tante possibilità che l’universo metal propone. Band come il Sogno di Rubik, i Mysteria Noctis o i qui recensiti Wine Guardian sono il lapalissiano esempio di chi non vuole farsi imbrigliare in un genere preciso e non per mancanza di identità, ma per l’esigenza di abbracciare la musica in tutte le sue sfumature e i suoi colori.

Il combo formato da Lorenzo Parigi, Stefano Capitani e Davide Sgarbi possiede un patrimonio musicale di tutto rispetto che pone le radici nella storia di maestri come Rush, Porcupine Tree, Queensrÿche e Opeth, che hanno donato ai Wine Guardian una formazione multicolore e multiforme. Timescape è il terzo lavoro della band, dopo i primi discreti 2 LP autoprodotti, e i nostri riescono finalmente ad accasarsi con una buona label e di conseguenza ad avvalersi di una produzione di tutto rispetto. Il disco è composto da 7 tracce con minutaggio medio-alto, per quasi un’ora di musica fruibile, a tratti impetuosa ma sempre orecchiabile e catchy. Per farvi un’idea basta ascoltare l’opener “Chemical Indulgence” che racchiude in otto minuti l’essenza della band: un brano “fresco”, moderno e accattivante, che alterna momenti riflessivi a incursioni feroci con il growl di Parigi che dona spessore e pesantezza al brano. Il tutto coadiuvato e supportato da riff granitici e da un drumming serrato e sostenuto. La seguente “Little Boy” ribadisce quanto sentito di buono nel primo brano, aggiungendo ancora più varietà nelle soluzioni artistiche, tra le quali spicca un bellissimo assolo di chitarra a metà della traccia per “spezzare” i riff ostinati che ci accompagnano durante tutto il minutaggio, sempre e comunque senza rinunciare mai alla melodia vera colonna portante del brano. La successiva “Magus” è un brano strumentale, oscuro e con richiami jazz che scorre meravigliosamente come una lunga introduzione alla successiva “Digital Dharma”. Il brano vive su momenti ed emozioni contrastanti; l’inizio è acustico, rilassato e avvolgente, poi cambia radicalmente intorno al terzo minuto, irrobustendo il suono, appesantendolo con un cantato sporco e sussurrato, con continui e spiazzanti cambi tempo di notevole pregio. Sul finale rallenta nuovamente diventando sincopato e ancora più profondo. Senza tregua si passa alla consecutiva “The Luminous Whale”; questa volta sono le linee di basso a dettare il groove, che vanno a descrivere turbamenti travagliati per un brano davvero sopra le righe. L’empatia col cantato è totale, la musica si adagia e riparte per donare un po’ di aria ai nostri polmoni sofferenti. Prova magistrale per i Wine Guardian che sfruttano a pieno la loro ecletticità per donarci un brano contemporaneo e mai banale. “The Astounding Journey” è il brano più lungo del platter e con i suoi 12 minuti abbondanti indossa la maschera di una piccola suite prog. Troviamo molteplici elementi caratteristici del genere ma sempre rivisitati e ammodernati per l’occasione. La contaminazione su questo brano è totale, potete scovare infiniti riferimenti e rimandi sonori ma senza discostarsi mai dall’identità del gruppo. Probabilmente è il brano che richiede più ascolti proprio per la sua natura “camaleontica” e quindi disorientante. La conclusione del disco è affidata alla morbida ed ermetica “1935”. Brano acustico che spazza il trend del disco offrendoci un momento di meravigliosa distensione uditiva; un pezzo country, degna conclusione di un disco incredibilmente vario e sfaccettato.

Al di là di qualche incertezza di pronuncia che a volte restituisce una sensazione di poca esperienza, il disco rimane comunque un lavoro di spessore che va alimentato e sostenuto. Manca davvero poco per assurgere a vette molto più alte e i Wine Guardian hanno tutta l’occorrente necessario per arrivare in cima e guardare l’orizzonte sconfinato della musica.

 

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