Recensione: Under The Moonlight

Di Roberto Gelmi - 18 Giugno 2017 - 10:00
Under The Moonlight
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Anno: 2016
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65

Arriva alla pubblicazione del suo primo album solista il chitarrista piemontese Ferruccio Fusetti, classe 1979 (l’anno di Valentino Rossi… e Andrea Martongelli degli Arthemis!). Il curriculum studiorum di Fusetti è di tutto riguardo, lezioni di chitarra elettrica presso il Centro Jazz di Torino e lezioni di canto moderno sotto l’egida di Roberto Tiranti (cantante dei Labyrinth). Tra il 1995 e il 2011 ha militato in vari gruppi rock/metal e nel 2001 rilascia un demo di 5 brani con il gruppo metal Heartwork. Dopo esperienza anche in musical e altre collaborazioni nel 2015 è la volta di Under the Moonlight. L’album è interamente acustico (voce e chitarra) e l’anno scorso è stato distribuito dall’emiliana Areasonica Records. Le principali influenze musicali di Fusetti, a suo dire, si rifanno a band come Europe, Def Leppard, Iron Maiden, Megadeth, Helloween, Stratovarius, ma anche a compositori quali J. S. Bach, Vivaldi, Tchaikovsky, Puccini, Wagner.

Immergiamoci, allora, nell’album unplugged. In apertura troviamo la tracklist, “Under the moonlight”. Atmosfere malinconiche e sognanti, a tratti la voce di Fusetti ricorda quella di Damian Wilson (ex-Threshold, Headspace), ma con qualche incertezza in più. Le note di chitarra acustica, invece, riportano alla mente le tinte fiabesche di un brano come “A past and future secret” dei Blind Guardian. Circa i testi, va detto che sono poetici, ma non originalissimi. Bello il pre-chorus: “Underneath a starlit sky/the world goes on/I only need to stop” e il refrain: “This rush of blood/this waterfall/from my eyes/i wonder/is it so far/what i’ve been searching for so long”. Altro brano leopardiano, “To the night” (dal minutaggio più lungo in scaletta) presenta una serie di adynata suggestivi, ma di nuovo un filo prevedibili: “I wanna touch the sky/I wanna feel the rain/I wanna reach the stars”. Tutto scorre in modo piacevole, forse la coda con parti in falsetto poteva essere arrangiata meglio.
Juliet” è una canzone che affronta il dilemma della solitudine amorosa: gli anni passano inesorabili (i Dream Theater parlerebbero di hollow years) ma il dolore per l’assenza di un’anima gemella continua a farsi sentire prepotente. Fusetti non graffia abbastanza in questo frangente, si poteva osare di più nelle parti vocali e guadagnare in pathos, non bastano le seconde voci a mo’ di coro nella seconda parte del pezzo. Avvio movimentato per “The Distance”, song che parla di una separazione irreversibile e brano un minimo risentito. Restiamo, tuttavia, in ambito acustico e I toni aspri vengono smorzati dalla 6-corde di Fusetti che disegna nel finale una trama sonora virtuosa. Testi più criptici e visionari in “A time to come”, un potenziale singolo dell’album. “Hope Then Surrender” ha le tinte meste di un fado: gli arpeggi e gli abbellimenti della chitarra (a tratti sembra di ascoltare un mandolino!) riescono a rendere mimeticamente la tristezza dell’io lirico che dialoga con gocce di pioggia ugualmente disperate. Siamo in finale di album. “Love Has Gone Too Far” ripropone una vicenda amorosa non a lieto fine: “I feel like a stanger/in this cold life/seems like I’ve got nothing left to do/but cry”. “Until The End Of Time” chiude il platter con queste parole: “Come cover my soul/‘till the end of the woe/‘till the end of time”.

In definitive un album che regala qualche emozione, ma non troppo longevo. Il valore aggiunto di Fusetti sta nella sua bravura chitarristica e nel contrasto tra la sua voce calda e liriche tra lo sconsolato e il poetico. Non siamo sul livello di ballad dei già citati DT, come “The silent man”, Take away my pain”o “Deep beneath the surface”, ma l’album merita una sufficienza.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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