Recensione: Uprising of the Fallen

Di Andrea Poletti - 19 Marzo 2017 - 6:28
Uprising Of The Fallen
Band: Hetroertzen
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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81

Breve storia personale Pt.1

Se da quando hai sedici anni ascolti musica estrema, il primo disco metal della tua vita recita “Serpents of the Light”, non conosci nulla del mondo main stream e di nomi altisonanti, diventa logico comprendere come tu abbia avuto una infanzia difficile. Se poi successivamente un giorno scopri un album chiamato “De Mysteriis Dom Sathanas” e gli occhi diventano cuoricini, finisci in tachicardia e senti gli uccellini cinguettare, è sintomo d’amore puro. In queste decadi centinaia e centinaia di album black sono passati sulle mie mani sino a quando…

Intro-spettiva

Il Cile, il Sudamerica, la sua grande tradizione di musica estrema, quanta bellezza in questo breve concetto. Trasferiamoci in Svezia ora, dove il mastermind Frated D ha preso casa da qualche anno insieme a Åskväder, al secolo Giannina Pizzoleo, per continuare nel vecchio continente la loro creatura. Tutto questo non c’entra molto con la musica proposta all’interno di “Uprising of the Fallen”, ma almeno ci aiuta a fare chiarezza sulla genesi che risiede dietro gli Hetroertzen moderni, una band che dopo sei album in studio riesce oggi ad arrivare ad una maturità tale che quasi risulta difficile credere alle proprie orecchie. L’evoluzione stilistica è paragonabile ad una discesa verso gli inferi, la band sta cercando di addentrarsi sempre più all’interno di un concetto prettamente esoterico, lasciando le martellate degli album precedenti leggermente più in retrovia; l’idea che un minimalismo sonoro stia prendendo il sopravvento è della maggiore, ma questo non è un male sia chiaro. Certamente la domanda che tutti noi frequentatori delle latrine del black metal dobbiamo porci a livello globale è molto semplice: “Non è che ci stiamo facendo prendere un po’ la mano dalla mania del ritualismo fine a se stesso?” Probabilmente è vero, ma questo album puzza così tanto di old-school da non avere nulla da invidiare a certi grandi nomi, anzi quella sensazionee maleodorante di essere di fronte ad un figlio illeggitimo di DMDS diventa un eco non così lontano. Fermi tutti, mai un disco riuscirà nei secoli a venire a raggiungere la soglia di maligno e di anticristianità che esce e sgorga da quella chiesa blu di Trondheim, è piuttosto la sensazione, l’odore di morte e di cupo disordine che porta alla mente quel capolavoro. La batteria, le chitarre e la sua produzione così claustrofobica attraverso il cantato evocativo di Anubis, la concezione delle canzoni che scorrono via come un ruscello rosso sangue, tutto questo fa pare di un grande insieme che tiene viva la fiamma nera nei secoli dei secoli amen.

Le canzoni?

Diciamo subito chiaro e tondo, qui dentro ci sono otto Canzoni e zero filler, tutto è così monolitico da prendere paura anche grazie alla quasi totale assenza di stacchi da una traccia all’altra, c’è un così grande compendio di quella vecchia scuola che ha fatto storia, unita alla progressione stilistica insita del gruppo da essere parte di un mondo parallelo. L’incedere della ‘Titletrack’ iniziale con il suo lento strisciare nei cunicoli più cupi per sette minuti di sulfuree visioni, il riff portante da cardiopalma di ‘The Fallen Star‘ che puzza di Norvegia sino al midollo e la ritualistica ‘Perception of the Unseen‘ sono alcuni degli episodi cardine da segnalare. Come già detto tutto presta un occhio di riguardo alla seconda ondata di black di metà anni 90, ci sono anche sfumature che attingono da realtà più contemporane quali Acherontas, Dødsengel e/o Ondskapt dove la tradizione si spinge ben oltre per toccare alcuni dei vertici compositivi dell’intero genere. Conludendo questa breve disamina c’è da sottolineare una traccia fuori dal coro, la seconda ‘Zealous Procreation‘ attraverso il suo perfetto dosaggio di tradizione e sperimentazione; sette minuti infiniti dove il cantato semi-liturgico di Anubis si intreccia alla perfezione con il lavoro di chitarre per diventare un mare nero come la morte. Probabilmente il brano più rappresentativo dell’intero disco.

Orario di chiusura

Non devo aggiungere molto, non c’è bisogno di sdoganare parole superflue per entrare in contatto con questo mondo, denominato “Uprising of the Fallen”, dove il consiglio migliore è quello di non lasciarsi trasportare dentro un sentiero dei ricordi, ma piuttosto vivere questa esperienza come la risalita di Lucifero nel regno della luce. Ora, nell’epoca della violenza a tout-court, siamo circondati da demoni assetati e senza tregua che giornalmente si nascondono sotto mentite spoglie, non c’è nulla di male per una volta nell’abbracciare il male supremo. Seguite la via nera, seguite l’opposto dei benefici, lasciatevi immergere e godetene a pieno, questo è la loro visione di black metal in dono per voi.

Breve storia personale Pt.2

… sino a quando, pur non raggiungendo la magnificenza di quel disco “Anti Mosh 006”, qualche reminiscenza torna a farsi viva e ti affezioni ad un disco che riesce a rievocare in una maniera o nell’altra i ricordi di una gioventù perduta, comprendendo come la fiamma nera dentro sia ancora viva. Non un capolavoro ma poco ci manca.

“Come mai sei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuor tuo: ‘Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra delle stelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parte estrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, sarò simile all’Altissimo’.

(Isaia 14:12-14)

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