Recensione: Ver Sacrum
Prima di mettermi all’ascolto di questo “Ver Sacrum”, ultimo capitolo della tetralogia dedicata dai Dawn of a Dark Age al Sannio e ai Sanniti e in uscita dopodomani, sono andato a ripassare la tappa precedente di questo viaggio concettuale: quel gioiello che risponde al nome di “Transumanza”. Vi ricordate di “Transumanza”, vero? Ve ne avevo parlato all’inizio dell’anno scorso: ebbene, il buon Vittorio Sabelli non perde tempo e chiude il suo ciclo musicale trattando l’adozione sannita del rito che intitola l’album. Per chi non volesse approfondire gli aspetti storici del rito della Primavera Sacra e si accontenti di una spiegazione en passant, vi basti sapere che tale rito prevedeva, al posto dell’uccisione di vittime prescelte come tributo a Mamerte, una migrazione delle suddette in territori sconosciuti per fondare nuove comunità e diffondere il culto.
Per rendere al meglio un soggetto di questo tipo i Dawn of a Dark Age ritorcono la propria formula – fatta di black metal, folk, jazz, rock e clarinetto – mettendone in risalto gli aspetti più propriamente etnici e ammantando il tutto con un respiro più tragico e sacrale. I toni sono oscuri e sinistri, e tingono le atmosfere dure ma per certi versi bucoliche del precedente capitolo con una drammaticità ancestrale, carica di un ritualismo primitivo e cavernoso. L’ingresso in formazione di Ignazio Cuga dei sardi Kre’u non fa che acuire questa sensazione, contaminando il tappeto sonoro di “Ver Sacrum” con elementi della terra dei Mamuthones e sommandoli alla già ricca e sfaccettata ricetta molisana. “Ver Sacrum” distilla gli elementi della propria materia sonora per musicare il mito: le sfuriate black vengono centellinate per veicolare il furore che punteggia alcuni punti della narrazione e spezzare l’incedere altrimenti ipnotico dell’album, mentre gli innesti folk si screziano di un’epica tribale che si fa di volta in volta inquieta, salmodiante o sofferta. Infine, le eleganti scorribande di clarinetto stemperano l’atmosfera cupa ed inesorabile così ottenuta fornendone un inaspettato contrappunto. A coronare il tutto, gli inserimenti narrati si mescolano ad echi ambient, cori lugubri e profondi e un cantato ruvido, ritmato e dalle connotazioni quasi aediche, impregnando ogni momento di un vigore a volte addirittura indigesto (il cui apice viene raggiunto nella scandita e cantilenante “Il Rito della Consacrazione”). Tutto si può dire di “Ver Sacrum” tranne che non sia un lavoro intenso.
Paradossalmente, è proprio l’intensità sacrale e primitiva che pervade l’album a risultare, in taluni casi, il suo tallone d’Achille. Se dal punto di vista puramente strumentale “Ver Sacrum” è inattaccabile, un comparto vocale così veemente rischia di far storcere il naso a un ascoltatore poco avvezzo a certe soluzioni, che potrebbe trovarsi spaesato dinnanzi al suo eccessivo fervore o ai suoi drappeggi narrativi forse troppo melodrammatici. Resta comunque il fatto che, come sempre con i Dawn of a Dark Age, l’impatto emotivo impresso nelle sue tracce – quattro, per una quarantina di minuti totali – è notevole, con un perfetto equilibrio tra i vari elementi che, sovrapponendosi tra loro, ne animano le atmosfere e la valenza narrativa.
Proprio per questo “Ver Sacrum” andrebbe preso come un unicum, un vero e proprio racconto mitologico da ascoltare nella sua interezza per farsi avvolgere dalle sue trame sonore. Dal placido inizio ambient di “Il Voto Infranto (l’Ira di Mamerte)” alla chiusura meditabonda e in un certo modo circolare dell’imponente “Venti Anni Dopo – La Partenza (Nascita Della Nazione Sannita)”, infatti, “Ver Sacrum” è un susseguirsi di approcci sonori complementari che, in un gioco ad incastro al tempo stesso tumultuoso e ieratico, intessono un arazzo policromo ma dalla forte coesione. Questa duttilità sonora dona al lavoro di Sabelli un’aura quasi progressive, rafforzata da rimandi a melodie familiari inseriti, però, in contesti differenti (ad esempio il moto ondoso di “Il Consiglio degli Anziani”, la cui melodia portante passa da un incedere solenne ad uno furioso restando sostanzialmente la stessa, o la continua sovrapposizione di elementi nella già citata “Venti Anni Dopo…” ). Il lieve spaesamento che ne deriva rafforza le connotazioni mistiche dell’album, il cui amalgama di violenza, epos e pathos genera un autentico inno.
Se non si fosse capito, ritengo “Ver Sacrum” l’ennesimo sigillo di grande livello nella discografica inattaccabile dei Dawn of a Dark Age: un lavoro sentito, appassionato e ricchissimo di spunti, la cui unica pecca è la poca digeribilità per le orecchie meno preparate. Stiamo comunque parlando di un lavoro di caratura notevole, al tempo stesso elegante e primitivo, nonché un ascolto obbligato per i fan del gruppo sabino. Buone feste a tutti.




