Recensione: Vera Cruz

Di Roberto Gelmi - 17 Giugno 2021 - 12:35
Vera Cruz
Band: Edu Falaschi
Etichetta: Nexus
Genere: Power 
Anno: 2021
Nazione:
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75

Nuovo disco solista per l’ex ugola degli Angra (2001-2010) e degli Almah, ancora una volta erede a distanza del grande André Matos con un album speed power che gioca sul tema del sacro con la giusta nota di saudade. Dopo Moonlight (2016), il disco Ballads (2017), l’EP The Glory of Sacred Truth (2018) e il live dvd Temple of Shadows in Concert (consigliato vivamente ai fan) è la volta del secondo vero disco solista metal per il cantante sudamericano. Supportato da una line-up di musicisti di livello (i suoi compagni di viaggio da più di un decennio a questa parte) e il mix di Dennis Ward, Edu propone un platter dal sound iperveloce, con doppia cassa infinita e intarsi chitarristici dal sapore barocco, accoppiata gustosa ma ripetuta in modo troppo pedissequo nella dozzina di brani che compongono l’album che si aggira ai 60 minuti tondi. La voce di Falaschi si è in parte ripresa dal problema di reflusso che lo costrinse a lasciare gli Angra, il cantante brasiliano non è ancora al 100% ma riesce comunque a regalare una performance accettabile con qualche buona acuto e la sua solita positività.

The Ancestry” è un opener al fulmicotone, pura energia power che va a dar luce anche alla giornata più nera. Tutto funziona alla perfezione, i bpm sono altissimi, il virtuosismo non latita e Aquiles Priester è chirurgico col doppio pedale. Bellissimo l’intro di “Sea of Uncertainties”, sembra di tornare ai tempi di Rebirth, “Skies in Your Eyes” è una ballad corale che si avvicina al gusto per la melodia degli Avantasia (chi ha detto “Journey to Arcadia”?) e un ottimo assolo di chitarra nel finale. Dopo il breve intermezzo “Frol de la Mar”, “Crosses” si rivela un’altra killer track erede degli Almah più diretti e spregiudicati. Nel turbinio di note sparate a mille, quello che stupisce è tuttavia l’orecchiabilità del ritornello (che ammicca a certe sonorità di Holy Land). Edu canta in modo sostenuto e senza cedimenti, è un piacere sentirlo su questi livelli. “Land Ahoy” è la composizione più lunga in scaletta, quasi dieci minuti di grande musica… S’inizia con atmosfere chiaroscurali che rimandano a “The Shadow Hunter”, capolavoro degli Angra di Temple of Shadows. Si prosegue in un saliscendi emotivo di tutto rispetto, con inserti “mistici” e l’ambizione di rivaleggiare con il classico dell’era Matos “Carolina IV”, ma ovviamente è impossibile raggiungere simili vette di poesia. Altra cadenza ben congeniata all’attacco di “Fire with Fire”, pezzo senza infamia né lode, mentre “Mirror of Delusion” si salva dall’anonimato grazie a inserti acustici ed etnici, oltre al costante virtuosismo delle 6-corde messo in campo.

Nel finale d’album compaiono tre pezzi agli antipodi. Dopo la catartica “Bonfire of the Vanities” (che avrebbe potuto riuscire più efficace con linee vocali meno tirate), in “Face of the Storm” troviamo Max Cavalera (ex-Sepultura, Soulfly) come ospite più che azzeccato per un pezzo che inizia in stile Pirati dei caraibi e poi propone un sound duro e tempestoso. L’altra ospite è Elba Ramalho, voce in “Rainha do Luar” (Regina del chiaro di luna): sembra di ascoltare in realtà Sabine Edelsbacher degli Edenbridge e gl’intrecci vocali con Falaschi convincono. Peccato il refrain sia troppo pretenzioso e urlato… Come bonus track non manca la versione acustica di “Skies in your eyes”, giusto una chicca.

 

In conclusione cosa aggiungere alla nostra disamina ? Vera Cruz è un album onesto, ben suonato, trasuda energia e velocità. Bastano questi elementi per renderlo un’uscita imprescindibile? Non è questa la vera domanda, chiediamoci invece se la cosa più importante non è risentire Edu Falaschi al microfono, felice di proporre il suo power metal di sempre. Auguriamo al cantante di San Paolo di continuare nel suo percorso artistico e di rivederlo prima o poi on stage anche in Italia. Per ora Vera Cruz può essere un bel messaggio per rassicurare i vecchi e i nuovi fan.

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