Recensione: Verminous

Di Daniele D'Adamo - 17 Aprile 2020 - 0:01

Confermando una consolidata continuità realizzativa, i The Black Dahlia Murder danno alle stampe “Verminous”, nono disco in carriera. Invariata la line-up rispetto a “Nightbringers” (2017), sintomo di stabilità strutturale ma, soprattutto, rara opportunità di seguire senza tentennamenti di sorta una linea temporale sulla quale apporre i tasselli di un’evoluzione che, a questi livelli tecnico-artistici, è quasi un obbligo, un dovere.

Condotta dalla straordinaria voce di Trevor Strnad, il combo Detroit macina watt su watt nel percorso che porta dalla title-track, che funge pure da opener-track, sino a ‘Dawn of Rats’. La potenza del sound è immensa, travolgente, compressa per poi essere liberata a seconda dei passaggi. L’esecuzione strumentale è pressoché perfetta, nel senso che i membri della band hanno raggiunto un livello di bravura che si assesta su quello delle migliori realtà del deathcore internazionale.

Si tratta, quindi, di avere a che fare con il ‘solito’ muraglione di suono, progettato e quindi costruito dalla band senza lesinare energia, sì da creare qualcosa di veramente immenso. I The Black Dahlia Murder, noncuranti dello scorrere del tempo, riescono a mantenere inalterata una densità di potenza abnorme, che squarcia l’etere, l’atmosfera, distruggendo tutto ciò che incontra per la sua strada. Peraltro, abbandonando (definitivamente?) la melodia, perlomeno intesa in senso classico, buttandosi a capofitto nell’abisso della violenza più pura.

Non solo, però.

Ed è qui che è insito lo scatto progressista avvenuto nell’ultimo triennio. Pur mantenendo inalterato il proprio marchio di fabbrica, il quintetto statunitense lascia intendere di essere in grado di diversificare la ricetta di base. Niente di stravolgente, questo è chiaro, tuttavia appare lampante la ricerca di una certa complessità a livello di composizione delle tracce. Le quali, costantemente succubi della dissonanza, mostrano un volto ricco di sfaccettature, di particolari, di rughe, che vanno scovate e portate alla luce ripetendo i passaggi. Travolto da una forza erculea che schiaccia per terra, premendo corpo e membra, sulle prime l’ascoltatore non riesce a cogliere che il sound nella sua globalità, come detto spaventoso nella sua emissione di decibel a tre cifre. Così, sfuggono quei particolari di cui si diceva più su. Non si tratta certamente di uno stravolgimento del ridetto stile che contraddistingue l’act del Michigan, tuttavia a mano a mano che si prende confidenza con il tutto, appaiono chiari i confini di ciascuna canzone e, soprattutto, il territorio da essi contenuto.

Territorio denso di vegetazione, fitto come non mai, dall’orografia complessa e articolata. Che, metaforicamente, equivale a sottolineare il notevole grado di complessità che hanno raggiunto i brani, lontani per questo anni-luce dai primi lavori messi giù a inizio millennio. Obbedendo allo stile fissato a fuoco sulla carne, le singole song seguono obbedienti la stessa linea rossa, diversificandosi con parecchio carattere l’una dall’altra. Seppure immerse in una matrice di fuoco, esse posseggono un’anima tutta loro, una personalità che le contraddistingue le une dalle altre. E, una per una, ben lontane da una forma-canzone canonica, ripetitiva. Anzi, per contro, presentando un grado di difficoltà notevole, a livello del migliore progressive metal, per estrinsecare un paragone nemmeno troppo campato per aria.

La bravura dei The Black Dahlia Murder, allora – fra un riff assassino e l’altro (‘The Leather Apron’s Scorn’, ‘The Wereworm’s Feast’) e una bombardata di blast-beats – si può inquadrare nella circostanza di rendere facili le cose difficili. Poiché, alla fine, malgrado la montagna di accordi disarticolati, accidenti musicali, disarmonie, assoli arcigni e ritmi mai uguali a se stessi per non più di tre secondi, “Verminous” è un’opera che malgrado tutto non può non lasciare indifferenti, tenendo altresì ben lontana la noia e, quindi, risultando pure longeva.

Gran lavoro!

Daniele “dani66” D’Adamo

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