Recensione: Weightless

Di Valter Pesci - 3 Maggio 2015 - 12:00
Weightless
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2011
Nazione:
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85

A due anni di distanza dal cd di debutto che lasciò tutti gli appassionati e gli addetti ai lavori piacevolmente frastornati, il buon Tosin Abasi decide di dar vita al seguito di Animals As Leaders. Nel 2011 esce, dunque, l’attesissimo secondo album di questa singolare band: Weightless.
Data l’ondata di entusiasmo scatenata dal primo lavoro in studio, pieno zeppo di novità e scelte artistiche innovative, la piccola (ma in continua espansione) community “animalesca”, non può che fremere, aspettandosi una grandiosa consacrazione, degna del primo disco se non superiore. Vediamo insieme se la seconda fatica dei nostri, “Weightless” appunto, soddisferà le aspettative o meno. La differenza da notare rispetto al passato è il cambio, abbastanza significativo, in line-up; da duo tuttofare, la band si trasforma ora in un particolare trio formato dal genio di Tosin Abasi (chitarra) e da due new entry:  il secondo chitarrista Javier Reyes e un drummer in carne e ossa questa volta, rispondente al nome di Naven Koperweis.

La curiosità cresce a dismisura e adesso è seriamente giunto il momento di addentrarci nell’ascolto dell’album, che le danze abbiano inizio.
An Infinite Regression” fin dalla prima nota ci conferma che la direzione stilistica, presa da Tosin e compagni con l’apprezzatissimo debut album, continuerà a consolidarsi anche negli anni a venire. Un visionario arpeggio slappato crea la giusta atmosfera cui siamo ormai largamente abituati. Quando s’inserisce il drumming incivile di Koperweis, la base musicale si incattivisce notevolmente. Un mini intermezzo elettronico (altro marchio di fabbrica) funge da stacco per dare avvio alla parte solistica di Tosin. Con tempi lontani dal lineare, il pezzo continua a scorrere, finché, come se non bastasse, la faccenda si fa ulteriormente intricata: un break assolutamente fuori di testa, caratterizzato da una vera e propria montagna russa della tempistica, fa da ponte alla coda melodica, riallineata ora al sapore del tema portante iniziale.
La componente elettronica si impone in modo invasivo nell’intro del secondo brano, “Odessa”. Un misto di campionature e programmazione digitale che s’intrecciano alla perfezione ogni volta che un elemento si aggiunge al precedente, andando a creare la base su cui si svilupperà l’intero pezzo. Improvvisamente un attacco batteristico dà il via a danze tortuose. Playing e programming si incastrano e si alternano in maniera sublime, riaffiorando reciprocamente l’uno all’interno degli spiragli lasciati dall’altro. Compattezza e pienezza sonora strabiliante per un pezzo dall’atmosfera futuristico-misteriosa.
Somnarium” si apre con un bell’arpeggio di chitarra in pulito, al quale si sovrappone, in seguito, un riff profondo e cattivo di elettrica. Il drumming del “novello” dietro le pelli è sempre estremamente corposo, ricco e di una precisione da fare invidia al signor Swatch. Ancora una volta ritroviamo uno dei marchi di fabbrica della band: l’alternarsi di parti cattive con battute soavi e di pura atmosfera. A quanto pare, poi, il caro Tosin ha deciso di apportare un uso ben più massiccio del solito di tecnologia ed elettronica, a dare un tocco di stranezza ulteriore grazie alla possibilità di utilizzare maggiori soluzioni stilistiche.
Earth Departure”. Una sezione ritmicamente imponente, costituita da impetuose scariche tecniche di ogni strumento non ci lasciano il tempo di acclimatarci al nuovo pezzo. Un inizio, come si suol dire, in medias res. Dopo qualche battuta di intro, ritorna l’immancabile componente elettronica a far sentire la sua presenza quasi intimidatoria. Il livello tecnico dell’esecuzione continua sui suoi elevatissimi standard fino al break acustico, il quale vede un semplice arpeggio creare un’atmosfera di attesa, ben presto colmata dall’ingresso di un solo più melodico del solito, quasi inaspettato. I tempi complessi continuano e un altro mini assolo decreta la fine del brano.
Isolated Incidents” ci accoglie con un arpeggio cupo, coadiuvato prontamente da una campionatura minimale ma essenziale. Il suono prende pieno corpo dopo qualche battuta, all’ingresso di tutti gli strumenti. La melodia non manca, anche se non sembra brillare troppo per originalità. Un solo in pieno stile “animalistico” precede la consueta cascata di note che vanno a formare la base ritmica, sulla quale il pezzo si dirama. Riff potenti e magistralmente assemblati agli altri suoni creano un unicum di impatto. Un nuovo breve solo ci conduce a un’altra serrata sezione ritmica. Il finale è ancora una volta dominato dall’elettronica che firma il final cut del brano.

Do Not Go Gently”, sesto pezzo del lavoro, presenta un intro campionato immediatamente seguito dagli strumenti classici in una ritmica abbastanza intricata. Il sound si palesa pesante e corposo. Come abbiamo potuto notare in passato, segmenti pacati, quasi acustici, si alternano magistralmente a parti distorte e prorompenti, creando completezza e amalgama sonora. “New Eden” entra immediatamente nel clou senza troppi fronzoli con un killer solo di Tosin Abasi e ritmi forsennati.  Giunti a metà brano, però, l’eccentrico maestro delle 8-corde sfoggia un arpeggio mellow caldo e rilassante che ci culla i sensi fino al finire delle danze. Dopo questa pressoché inusuale parentesi, ritroviamo tutti gli elementi caratteristici del suono della band nell’ottava traccia, “Cylindrical Sea”. Intro visionario dedicato all’elettronica, inserimento d’impatto degli strumenti e alternanza di battute tranquille e melodiche con altre decisamente più energiche e travolgenti. Tempistica e drumming del mostruoso Koperweis da pelle d’oca, temi dalle melodie che rimandano al mondo chitarristico più classico, ma anche sfuriate e assoli ipertecnici pieni zeppi di tutto quello che può partorire la mente di un genio come il nostro leader, le sue incredibili capacità e la conformazione fisica dello strumento.

Espera” riesce ad aggiungere ancora qualcosa di nuovo e assolutamente non scontato. Si tratta di un mini pezzo di raccordo, ma i suoi due minuti abbondanti ci catapultano in un’altra dimensione. La regia delle suggestioni è completamente affidata a suoni e rumori quasi dissonanti e apparentemente dissociati tra loro. Sempre presente le ormai classiche campionature tipiche delle sonorità della band. La terzultima canzone è “To Lead You To An Overwhelming Question”. Ancora un inizio sospirato che precede uno stacco improvviso e un totale cambio di atmosfera. La song è in linea con la maggior parte delle altre, ritroviamo ancora una volta tutti i crismi della proposta di Tosin & Co.: tempi complessi, playing generale da far rizzare i peli ovunque anche ai più glabri, alternanza di mood diversi ecc. Tutto nella norma insomma, eccezion fatta per un intermezzo dal sapore molto jazz-oriented, ulteriore tocco di classe. La title-track arriva quasi in chiusura di questo secondo lavoro. La struttura del brano è sempre la stessa, il che ci porta ad affermare che non ci sia altro da dire a riguardo, se non ribadire l’assoluta qualità di quanto le nostre orecchie sentono. Onestamente, però, sarà perché si spera di trovare a ogni traccia qualcosa di nuovo, sarà perché dalla canzone che da nome ad un album ci si aspetta sempre qualcosa di speciale, in questo caso forse la composizione poteva e doveva dire di più. Siamo arrivati così all’ultimo atto del secondo capitolo della storia di questa band: “David”. L’unico attore a calcare la scena è proprio il protagonista e leader del trio americano. Solo Tosin e la sua acustica ci cullano con un brano che ha tutte le caratteristiche di un lullaby, una specie di ninna nanna ostinata impreziosita da un piccolo colpo di genio: in sottofondo, infatti, una sorta di fruscio (come quando si registrava qualcosa con gli ormai dimenticati audio-registratori portatili) e alcuni brusii quasi casuali accompagnano tutto il pezzo, dando un tocco di vintage e improvvisazione totale al tutto.

In conclusione si può parlare di lavoro davvero ben riuscito. L’ingresso in line-up di un batterista ha apportato quel tocco in più che mancava precedentemente (anche se le programmazioni del primo cd erano comunque di alto livello). L’unico appunto che si può fare, volendo essere pignoli ma anche obiettivi, è che il prodotto proposto a volte può risultare ripetitivo in quanto, come detto, la struttura dei brani è quasi sempre la medesima e anche l’impatto sonoro, per quanto esaltante e originale, tende un po’ a compiacersi e all’autoreferenziale. Un neo minimo e quasi impercettibile per un album che consolida la band nell’olimpo del progressive strumentale. 2/2, ben fatto Animals.

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