Recensione: With Doom We Come

Di Francesco Gabaglio - 25 Gennaio 2018 - 14:09
With Doom We Come
Band: Summoning
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2018
Nazione:
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78

Più di quattro anni sono passati da “Old Mornings Dawn“, album nel quale i Summoning dimostravano di essere non solo ancora in attività, ma anche in qualche modo cresciuti e alla ricerca di nuovi orizzonti sul piano compositivo e sonoro. Il lavoro, nonostante fosse ben riuscito, era il ‘meno bello’ della carriera della band e aveva lasciato qualche fan di vecchia data con un po’ di amaro in bocca o, per lo meno, con un po’ di apprensione per il futuro.

Dopo quattro anni il duo delle meraviglie torna inaspettatamente con questo nuovo full-length, intitolato “With Doom We Come“. È un album particolarmente cruciale nella carriera degli austriaci, i quali devono dimostrare al mondo che “Old Mornings Dawn” (“OMD”) non è stato l’inizio della fine, che non è stato il primo passo di una parabola discendente. Perché quella parabola porta verso la mediocrità. E, per una band che ci ha abituati all’eccellenza, la mediocrità è forse il destino peggiore.

Togliamoci subito la suspense di torno, allora: “With Doom We Come” è un album più bello del precedente.

Forse.

Più o meno.

Perché, a differenza di “Old Mornings Dawn”, “With Doom We Come” ha almeno due (potenziali) grandi problemi.

Il primo è la mancanza di innovazione. Saranno sì passati più di quattro anni da “OMD”, ma la verità è che l’album suona come se fosse uscito ad una settimana di distanza. Non si trova, in tutto l’album, un solo elemento che non facesse già parte del lavoro del 2014, a partire dallo stile di chitarre e percussioni fino ai timbri dei suoni sintetizzati.

L’osservazione è valida anche e soprattutto su una scala più macroscopica, perché anche il feeling dell’album nel suo complesso è rimasto invariato. La furia e l’epicità della guerra sono state, ancora una volta, messe da parte in favore di un approccio più rilassato e malinconico.

Un elemento di distacco è semmai la maggiore pervasività della malinconia, che qui la fa da padrone in tutto il disco. I brani sono cioè tutti (con l’illustre eccezione di ‘Silvertine‘) lenti e cadenzati, più di quanto non accadesse in “OMD”. La costanza ritmica non ha un impatto particolarmente negativo sull’insieme; diventa monotonia unicamente per quanto riguarda la sezione formata da chitarre e percussioni, migliorata rispetto a quella di “OMD” ma a volte ancora troppo piatta.

La seconda, grande problematica è costituita dal mixing. La produzione, affidata come di consueto a Protector, è semplicemente un peggioramento di quella dell’album precedente. Non solo è quasi priva di dinamica, ma è anche nettamente sbilanciata sugli alti: da un lato dà così troppo risalto alle varie percussioni (cioè tamburelli e sonagli vari, presenti in quantità esagerate in tutto il disco), mentre dall’altro sacrifica pesantemente le frequenze medie e medio-basse, dove si trovano le chitarre. Questo toglie corpo al suono, che risulta quindi a volte tanto vuoto e cristallino da essere fastidioso.

Esemplare è la conclusiva ‘With Doom I Come‘, pezzo tutto sommato buono a livello compositivo ma piagato dal volume dei già citati sonagli, che sovrastano gli altri strumenti e perforano l’udito dell’ascoltatore senza interruzione per 11 minuti.

La produzione non può nemmeno essere motivata dal genere di appartenenza, perché il black metal è grezzo nella registrazione, non nel mixing. Un mixing che non permette di sentire tutti gli strumenti non è una scelta artistica, bensì un errore, e questo è proprio il caso di “With Doom We Come”. Intediamoci: non si tratta di un errore tanto madornale da rovinare completamente l’album, che per la maggior parte ha un suono più che sopportabile, soprattutto se lo si ascolta su vinile; ma rimane un errore che lascia un po’ perplessi, soprattutto se si considera il buon lavoro che Protector ha svolto al mixing almeno fino a “Oath Bound“.

 

 

Ci sarebbero anche altre critiche da muovere, ma la verità è che “With Doom We Come” è comunque un album bellissimo. Nonostante tutto.

Perché è vero che il cantato di Protector a volte sembra quello di un vecchio ubriacone con la sbronza triste, come in ‘Night Fell Behind‘ e in ‘With Doom I Come‘; ma in ‘Carcaroth‘, seguendo la melodia dei synth, riesce invece ad evocare in modo incredibile un’atmosfera leggendaria mentre racconta la storia del lupo più temuto di Arda. Il risultato è stupendo e ti ritrovi a canticchiare la melodia anche dopo che hai tolto il CD dallo stereo.

Ed è vero che la struttura dei brani a volte sembra un po’ confusa o diluita, come in ‘With Doom I Come‘ o in ‘Mirklands‘; ma la melodia centrale di quest’ultima è uno dei momenti meglio riusciti, più alti e sognanti dell’album, e quando l’ascolti ti vengono i brividi e torni con la mente a “Let Mortal Heroes Sing Your Fame“, e ti ricordi cos’erano i Summoning, e capisci che sono ancora vivi, e che ti stanno parlando anche ora, un’altra volta, con quella stessa voce inimitabile.

Ed è vero che spesso le chitarre non brillano per inventiva, come in ‘Herumor‘; ma in ‘Silvertine‘ invece si animano e si accompagnano a delle parti di synth epiche e insieme spettrali che manco gli Emperor; e, unite alla voce di un Silenius mai così in forma e così abrasivo, danno vita ad un brano memorabile, epico, immediato e quasi spaccone: forse il brano più black degli ultimi anni di carriera della band e certamente il più bello di quest’album.

E, infine, è vero che l’album è un “Old Mornings Dawn – parte 2“; ma è anche vero che, proprio per questo, è un album di più facile approccio per l’ascoltatore, che ormai ha già familiarizzato col nuovo sound. A differenza del disco precedente, “With Doom We Come” fila liscio come l’olio e si lascia ascoltare che è un piacere, nonostante le durate dei due album siano identiche. Merito del minutaggio più eterogeneo dei singoli brani, ma certamente anche dell’utilizzo più intelligente e organico di alcuni suoni e di alcune idee già sperimentate in “OMD”.

Insomma, questo è “With Doom We Come“: un album con tanti difetti più e meno grandi, ma anche tanti pregi che lo riscattano ampiamente. Il punto forte dell’album è, ancora e sempre, l’efficacia delle melodie di synth, centro e motore dei brani: in questo àmbito Silenius e Protector dimostrano nuovamente di essere maestri assoluti e di non temere eguali. Questo è quello che chiediamo loro, questa la loro vera anima; e non si potrà davvero parlare di “parabola discendente” fintanto che la loro capacità di comporre melodie rimarrà su questi livelli.

La mediocrità dovrà ancora aspettare, quindi. E, di questo passo, dovrà aspettare ancora a lungo.

 

Francesco “Gabba” Gabaglio

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