Live Report: Lock Up a Roma

Di Francesco Sorricaro - 1 Novembre 2010 - 20:49
Live Report: Lock Up a Roma

C’era grande attesa per la data romana dei grinder Lock Up, alla loro primissima calata italica; appuntamento peraltro rimandato in precedenza per il famoso vulcano e perlopiù cambiato di location prima di poterlo definitivamente fissare in un locale del popolare quartiere di San Lorenzo. È anche per questo che, vedere appoggiati su un muro davanti all’entrata della Locanda Atlantide tre dei giganteschi (e non solo fisicamente) membri della super band, che chiacchierano tranquillamente del più e del meno prima dello show, desta una particolare emozione. Stiamo parlando di personaggi che hanno fatto la storia del metal estremo made in Europe: Tomas “Tompa” Lindberg, membro fondatore dei seminali At The Gates ed ideatore di numerosi altri progetti, Shane Embury, bassista storico di band come Napalm Death e Brujeria e Nicholas Howard Barker, imponente batterista già di Cradle of FIlth e Dimmu Borgir, che ha prestato nel tempo il suo poderoso drumming a decine di gruppi storici anche oltreoceano. A questa “trimurti” terribile si aggiunge il chitarrista cileno Anton Reisenegger, chiamato al non facile compito di sostituire il compianto Jesse Pintado, deceduto nel 2006.

Una serata che si preannunciava carica di energia grazie anche al contributo di ben tre opening act tricolore del calibro di Hellvate, Tsubo e The Orange Man Theory.

 

Foto e report a cura di Francesco Sorricaro

Il più grande merito dei benevantani Hellvate è stato sicuramente quello di aver messo l’anima per scaldare i pochi aficionados già presenti sotto il palco a quell’ora. Il loro cruento death metal di scuola americana ha presentato alcuni passaggi di grande tecnica strumentale mixati a sfuriate rabbiose ai confini di certo black scandinavo. Il growl di Tommaso Rossi è possente ed ha nascosto qualche incertezza qua e là, ma la prova dei cinque è stata, nel complesso, degna di lode.

Un cambio di palco molto accurato ha preceduto l’esibizione degli Tsubo. Alfieri del grindcore più oltranzista, questi quattro scatenati di Latina hanno divertito il pubblico fino all’estremo (è proprio il caso di dirlo!) con un assalto all’arma bianca che molto ricorda i cari vecchi Nasum o anche, per certi versi, maestri come i Brutal Truth. I ritmi velocissimi del combo, uniti al cantato particolarmente ultrasonico di Giorgioni contrapposto al growling del bassista Gux nel, diciamo, declamare le loro liriche in corrosivo Italiano, hanno incuriosito persino uno come Embury, da molti additato come uno dei padri di questo particolare genere, che ha assistito all’intero show degli Tsubo seduto nell’ombra ad uno dei grossi tavoli sistemati ai lati della platea, disturbato solo da un bengalese che voleva vendergli una sveglietta recante il logo “mooolto grind” di una nota gattina giapponese. Chiuso da una cover degli Assuck e da una, molto applaudita, dei Terrorizer, il concerto degli Tsubo ha senz’altro calato la sala nel clima esplosivo che meritava la serata.


                                

I The Orange Man Theory godono di un discreto seguito nella Capitale. Figliocci dei Today is The Day, con l’aiuto del cui leader Steve Austin, registrarono il debut Riding A Cannibal Horse From Here To…, hanno sempre proposto il loro hardcore sulfureo e tempestoso con grande carattere e attitudine punk ma, in questa occasione si è raggiunta forse l’esagerazione. Fatto sta che, dopo un paio di brani coinvolgenti che stavano raccogliendo il consenso sincero degli astanti, Gianni, voce del gruppo, decide di prendere l’iniziativa di stoppare drasticamente l’esibizione; decisione bene o male condivisa dai suoi compagni che, in breve, cominciano a smontare la loro attrezzatura. Ora, senza entrare nel merito delle responsabilità, dei problemi tecnici e delle probabili incomprensioni tra la band e l’organizzazione dell’evento, io penso che si sarebbe potuto e dovuto trovare un accordo temporaneo per rispetto di chi, magari, aveva pagato il biglietto anche per vedere quel gruppo, e questo, poi, non è così difficile da credere.

Fatto sta che, dopo aver assistito a qualche strascico di discussione, ci si è trovati ad assistere al soundcheck anticipato di Barker e soci. Curiosità e divertimento nel vedere artisti, concepiti da molti come idoli assoluti per la loro grande esperienza e la loro storia artistica, provvedere praticamente da soli alla messa a punto dei propri strumenti e, allo stesso tempo, dispensare sorrisi ed interagire con i fan a bordo palco, a dispetto dell’aspetto rigorosamente truce riservato durante gli spettacoli. Il grind è anche questo: quel piacevole stridore tra estremi che vengono a contatto nello stesso tempo; una sorta di schizofrenia terapeutica che lo rende, da sempre, uno dei generi più seguiti del panorama metal, partito dai sobborghi industriali di Birmingham e, ancora oggi bene o male suonato ancora in contesti molto popolari e suburbani.

Lo show dei Lock Up è stato una fiammata spaccaossa. Non appena il buon Tompa ha guadagnato il palco, è partita una scarica di brani saccheggiati dai due unici album che compongono la loro discografia: brani semplici, nulla di particolarmente eversivo rispetto al puro grindcore di vecchia scuola. Del resto una delle frasi lette sul retro delle loro T-shirt recita: “7 Churches on vinyl or Fuck Off!”, e quale messaggio di maggior attaccamento alla ruvida realtà delle cose ci potrebbe essere per un deathster.

Pezzi come Feeding on the Opiate, Castrate the Wreckage, Triple Six Suck Angels, Detestation sono musica per le orecchie dei presenti, i quali si sono fatti arringare con gran piacere dalla voce sempre abrasiva del costantemente sorridente cantante svedese: un monumento sulle assi che, con la sua barcollante frenesia, lo avrà percorso avanti e indietro almeno un centinaio di volte cercando gli occhi e la voce delle prime file. Dal canto loro, i suoi compagni, non si sono fatti certo pregare: Shane Embury con i suoi tipici movimenti mentre lanciava bordate di basse frequenze sulla folla, Reisenegger indiavolato sul suo lato e persino il mastodontico Nicholas, che con i suoi folti basettoni sembrava uscito da una novella di Dickens, si alzava spesso dallo sgabello per raccogliere il coinvolgimento della sala. Osservare il batterista inglese è uno spettacolo: con una postura che ricorda molto un suo “importante” collega che risponde al nome di Gene Hoglan, suona allo stesso tempo con grande potenza ed invidiabile nonchalance, producendo un sound che, a mio avviso, è il vero segno distintivo della musica dei Lock Up; ricco di quegli inserti iperveloci stile black metal che, provenienti dal suo personalissimo bagaglio, rendono ancora più letali le composizioni del combo.


                                

 

La temperatura, in zona palco, ha raggiunto presto livelli insostenibili e i nostri hanno dimostrato di patirlo particolarmente, ma pezzi come The Jesus Virus e Hate Breeds Suffering non potevano essere tralasciati in scaletta quando finanche Cascade Leviathan, uno dei brani “più lunghi” del loro repertorio con i suoi ben “2 minuti e tre quarti” di durata viene proposta sul finire della serata. Non poteva mancare neanche un sentito omaggio collettivo all’amico fraterno Jesse Pintado, ricordato nel migliore dei modi con la proposizione di due brani killer dei suoi Terrorizer come Storm of Stress e Fear of Napalm che hanno creato il panico nel pit.

Un’ora e poco più di intensa e piacevole macelleria sonora per tutti gli appassionati accorsi alla Locanda che hanno anche avuto la possibilità di fare liberamente quattro chiacchiere con i musicisti durante tutto il corso della serata, in una atmosfera davvero piacevole ed estraniante. Buona la prima per i Lock Up!

Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro