Live Report – Hellfest – 15/16/17 Giugno 2012

Di Orso Comellini - 20 Giugno 2012 - 20:34
Live Report – Hellfest – 15/16/17 Giugno 2012

Reduci dall’esaltante edizione dello scorso anno dell’Hellfest, che ha visto tra i suoi maggiori interpreti gruppi del calibro di Scorpions, Judas Priest e Ozzy Osbourne tra gli altri, mio fratello ed io, assieme a un’improvvisata, ma quanto mai felice, compagnia di viaggio, ancora una volta ci siamo recati in terra di Francia per assistere a quella che con buona probabilità è la più valida alternativa (almeno in ambito europeo) allo strapotere del teutonico e prestigioso Wacken Open Air.

A voi il report di quei magnifici giorni, a cura di Orso “Orso80” Comellini.

Consapevoli del fatto che la scaletta degli artisti che si alterneranno quest’anno sarà forse meno clamorosa rispetto a quella della passata edizione (anche se può vantare la presenza di ben 150 gruppi, circa), ma con la curiosità per il cambio di location e l’aggiunta di altri due palchi ai quattro consueti, partiamo alla volta di Clisson con un giorno di anticipo. In questo modo speriamo di arrivare nel primo pomeriggio di giovedì, piantare la tenda e riposarci prima di affrontare i tre giorni all’“Inferno” d’oltralpe. Dopo un viaggio lungo e con qualche contrattempo, ma in definitiva piacevole, la pittoresca cittadina immersa nelle campagne della regione della Loira, si staglia davanti ai nostri occhi, così come la fiumana di metalheads elettrizzati che, da ogni parte d’Europa e non solo, converge verso i parcheggi e l’ingresso del festival. La scelta di partire in anticipo si rivelerà azzeccata e permetterà di accamparci nelle vicinanze dell’area concerti, a differenza di coloro che, arrivati durante la serata oppure il giorno dopo, si dovranno accontentare di un posto alle estremità di un campeggio a dir poco sterminato, capace di contenere anche centomila persone. Oltretutto la serata scorre piacevolmente sotto il grosso tendone della birreria, all’interno di quello dedicato alla musica e al bivacco, oppure davanti al maxi schermo che trasmette una partita degli Europei di calcio. Qualche improvvisato chitarrista ci affligge testando le qualità di un nuovo videogioco in stile Guitar Hero e in molti si accalcano ai pochi stand culinari aperti per quella giornata creando lunghe file, ma non intaccano minimamente l’euforia dei presenti, ben consci di quello che ci attenderà dal giorno successivo.


Venerdì 15 Giugno
La giornata ha inizio, almeno per il sottoscritto, testando subito la zona docce che, anche se per raggiungerla si deve passare per l’abituale coda di almeno mezz’ora, si dimostra piuttosto pulita e confortevole. Cabine dotate di acqua calda, anticamera/spogliatoio e doccia con tanto di tendina. Dopo questa piacevole parentesi e un pranzo frugale è tempo di gettarsi nella mischia e il programma della giornata prevede sul palco principale il potente heavy metal dei Lizzy Borden Show piuttosto valido per l’eccentrico singer americano, che si presenta sul palco con mantello nero e maschera orrorifica, affiancato da alcune ballerine di lap dance che loro malgrado finiscono vittime del caratteristico spettacolino a base di asce, fiamme e tanto sangue finto, cui siamo abituati. Il Nostro propone il meglio del proprio repertorio, che culmina con l’esecuzione della celebre “American Metal” che molti cantano a squarciagola. Peccato solo che il cantante appaia leggermente sgolato e i suoi altissimi urli escano abbastanza rauchi, ma niente di così grave. Sul secondo palco principale salgono poi gli Street Dogs, divertente (ma non molto di più) band che propone una musica dall’animo punk britannico, che nei momenti più melodici tende a ricordare quanto proposto dai primi Green Day, anche per il timbro del cantante e in un attimo è già la volta di un altro grande nome, di nuovo sul palco principale: i Molly Hatchet.:Il loro spettacolo è di ben altro spessore e richiama molto più pubblico. Infatti, sebbene la maggior parte dei membri originari non siano più presenti, il gruppo ha continuato imperterrito a sfornare album apprezzabili. In questo caso comunque c’è spazio solo per i classici come “Whiskey Man”, in apertura, “Gator Country”, “Dreams I’ll Never See”, la bellissima “Fall Of The Peacemaker”, anche se in versione ridotta e “Bounty Hunter”, fino alla conclusiva e immancabile “Flirtin’ With Disaster”. La loro miscela di southern rock e hard & heavy farcita di molti soli è semplicemente travolgente dal vivo e in pochi riescono a rimanere fermi. Una breve camminata e ci spostiamo dai mainstage per recarci presso The Valley per assistere agli Atomic Bitchwax, band dell’ex batterista dei Monster Magnet, Bob Pantella e dell’ex Godspeed Chris Kosnik alla voce e basso. Il loro è uno stoner dalle tinte space rock, fresco e genuino, tuttavia non sono mai riusciti a imporsi in un mercato forse già saturo. In molti comunque si fanno coinvolgere dalla loro proposta trascinante e dinamica. È tempo poi già di fare le prime scelte, perché, se è vero che sul mainstage è la volta degli Unisonic di Michael Kiske e Kai Hansen, sotto il tendone del Warzone si presentano gli storici hardcorer Discharge, riunitisi nel 2001. Gruppo che ha influenzato svariate band thrash (Jeff Hanneman da sempre ha il loro adesivo sulla chitarra, per esempio) e perfino death/grind. In poco meno di un’ora e senza quasi mai proferire parola, snocciolano venti/trenta canzoni semplicemente devastanti da album come “Hear Nothing See Nothing Say Nothing” o Never Again”. Giusto il tempo di riprendere fiato che al Valley è arrivato il momento degli Orange Goblin. Il combo inglese, si rende protagonista di uno show devastante come pochi, tanto che sembrano lontani i tempi del più quieto “Frequencies From Planet Ten” del 1997, adesso i loro riff picchiano davvero duro, scatenando il delirio della platea. Dopo aver assistito ai primi brani dei Gotthard (tratti principalmente dall’ultimo album), che sono apparsi forse un po’ sottotono, ci siamo diretti di nuovo al Warzone per assistere allo spettacolo dei GBH, per i quali vale in parte lo stesso discorso dei Discharge. Indubbiamente, dei gruppi storici, sono tra i migliori, potendo contare su composizioni un po’ più articolate e buoni soli di chitarra. Show coinvolgente, che offre, tra le altre, “Sick Boy” (canzone coverizzata dagli Slayer), cantata all’unisono dal pubblico.

Decidiamo poi di mettere qualcosa sotto i denti, mentre sul palco principale si esibiscono i Turbonegro con il loro valido glam/punk/hard rock, prima che la serata entri nel vivo. È il momento, infatti, dei grandi Lynyrd Skynyrd, che presentano una scaletta degna dei migliori best of. Ogni brano è un classico: “Workin’ For MCA”, “Simple Man”, “Sweet Home Alabama”, “Saturday Night Special”… Gran parte dei paganti si affolla davanti al loro palco e sul finire chiedono a gran voce e ottengono la tanto osannata “Free Bird”. Prima di arrivare agli headliner di giornata, c’è tempo per andare a dare un’occhiata ai due nuovi palchi del festival (sistemati a V sotto un enorme tendone scuro), l’Altar e il Temple, sul quale si stanno esibendo i blackster Satyricon. L’impatto con il loro personale black metal lascia il segno senza dubbio e Satyr, Frost & Co. non intendono risparmiarsi, ma dato l’imminente show dei Megadeth, dopo un po’ di brani devastanti (tra i quali, purtroppo, nessuno di questi preso da “Nemesis Divina”), ci spostiamo verso il palco principale.

I Megadeth fanno mestamente il loro ingresso con dei volumi certamente fuori luogo e, complice in parte il vento, per riuscire a godere appieno dello show (e sentirlo per bene) è necessario sostare vicino al palco. Mustaine, Broderick, Ellefson e Drover, a differenza di altri loro colleghi, sembrano maggiormente intenzionati a promuovere il nuovo “Th1rt3en”, dal quale propongono ben quattro brani, affiancati alle immancabili “Hangar 18”, “Peace Sells” e “In My Darkest Hour”. Molto spazio poi è affidato anche ai brani di “Countdown To Extinction” (“Sweating Bullets”, “Foreclosure Of A Dream” e “Symphony Of Destruction”) e successivi. Un po’ pochi i brani strettamente thrash, limitati a “Poison Was The Cure” e al medley “Holy Wars/Mechanix”. Ad Ogni modo, complessivamente lo show riesce ad andare a segno e la prova dei singoli è assolutamente priva di sbavature. Il pubblico francese, ovviamente, si esalta particolarmente e si sgola in occasione di “A Tout Le Monde”. Buona, nonostante le perplessità iniziali, la prova vocale di Mustaine: meglio che in altre occasioni. Questa lunga giornata però non è ancora volta al termine, perché dal secondo mainstage cade il drappo nero che lo nascondeva, svelando una tetra scenografia orrorifica ed è il turno di King Diamond. Il singer danese in qualche modo pare rinfrancato dalla lunga pausa dalle scene e regala ai presenti una prestazione notevole e, nonostante le fatiche di una giornata intensa e la pioggia che fa la sua comparsa, chi lo conosce molto probabilmente non avrà granché da reclamare. A parte qualche inevitabile assente la setlist è delle migliori, attingendo soprattutto dai primi album (fino a “The Eye”). In più si segnala l’ottima prestazione di Thompson alla batteria e dell’affiatata coppia d’asce LaRocque/Wead che in pratica non sbagliano una nota delle articolate canzoni proposte. Il Re Diamante infine si congeda con una versione da brivido della bellissima “Black Horsemen” che spedisce tutti soddisfatti nelle proprie tende.

Sabato 16 Giugno
Dopo una giornata emozionante come quella precedente, le aspettative sono alte anche per le esibizioni del sabato ed effettivamente non saranno deluse. Arrivati all’arena prima della fine del divertente show degli Steel Panther (anticipato all’ultimo minuto di almeno un’ora e mezzo), prendiamo postazione tra i due palchi principali perché qui ci attende un notevole tour de force. Si parte con i thrasher Death angel che, in occasione dei venticinque anni dall’uscita di “The Ultra-Violence”, con sommo gaudio dei presenti, lo propongono per intero. Colpisce molto la veemenza con la quale i Nostri lo eseguono: da rimanere a bocca aperta. Giusto il tempo di rilassarsi un attimo con il valido hard rock dei Koritni che arriva il tanto atteso momento dei Sacred Reich. La band di Phoenix riformatasi nel 2007 sembra subito in ottima forma e in quaranta minuti propone il meglio del proprio repertorio con un’energia davvero invidiabile, forse per merito anche del ritorno di Greg Hall dietro alle pelli. Oltre agli immancabili classici “Ignorance”, “Independent” e “Surf Nicaragua”, esaltano il pubblico con una valida cover di “War Pigs” dei Sabbath. Giusto per spezzare un po’, sul palco accanto poi salgono gli storici Uriah Heep, tuttora in attività con album piuttosto interessanti che i Nostri non mancano di presentare. Tuttavia il piatto forte è rappresentato ovviamente dai classici come “Gypsy”, “Sunrise”, “Stealin’” e “Travellin’ In Time” che mandano in estasi i presenti. Grande show il loro, veramente emozionante. Di nuovo un cambio di palco e si presentano gli Exodus, orfani di Gary Holt impegnato con gli Slayer, ma forti dell’ausilio di un Hunolt visibilmente emozionato. Per questo motivo probabilmente i Nostri trascurano completamente gli ultimi tre album e si concentrano principalmente sulla riproposizione di “Bonded By Blood” quasi per intero, accanto ai maggiori successi di “Fabulous Disaster” e “Tempo Of The Damned”. Pur essendo il cantante meno carismatico che abbiano mai avuto, Dukes si conferma un animale da palco e il pubblico lo ripaga con vari circle-pit e un devastante wall of death. I soliti cinque minuti di attesa ed è il turno di Sebastian Bach, accompagnato da un grande batterista come Jarzombek (Riot, Fates Warning, Iced Earth tra gli altri) e dal chitarrista dalle illustri collaborazioni Nick Sterling. Il singer canadese si limita a proporre un paio di brani della carriera solista e si concentra sui principali successi degli Skid Row, come in molti si auspicavano. Perciò arrivano, “Slave To The Grind”, “Monkey Business”, “Big Guns” e immancabilmente l’accoppiata cantata da tutti, “18 And Life” e la conclusiva “Youth Gone Wild”. Bach sfoggia una buona voce, anche se non per tutto il concerto e pare davvero instancabile sul palco, non fermandosi neanche un minuto per tirare il fiato, se non per far cantare talvolta il pubblico.

Terminata l’esibizione del cantante biondo crinito, decidiamo di concederci finalmente una pausa per mangiare qualcosa prima del gran finale e ci spostiamo nell’area Valley per assistere all’esibizione degli storici doomster Saint Vitus di Scott “Wino” Weinrich e Dave Chandler. Il loro è un buon concerto, sebbene concentrino molto gli sforzi sulla presentazione dei pezzi del nuovo album, che comunque s’integrano molto bene con i brani storici, in un vortice continuo di note in grado di risucchiare le ultime energie rimaste, tra la soddisfazione generale. Appena terminato lo show, facciamo una corsa per assistere alla seconda metà del concerto dei Machine Head. La band di Flynn e Demmel si può giovare dei volumi più alti di tutto il festival, senza che ne risenta minimamente la qualità. A concerto avviato riusciamo ad ascoltare solo alcuni pezzi degli ultimi due album da studio, proposti con una notevole energia, fatta eccezione per la conclusiva e devastante “Davidian”. I presenti sembrano davvero esaltati dalla loro esibizione, reputandola una delle migliori dell’intero festival. Infine è il grande momento di Axl Rose e dei suoi Guns N’ Roses. Inutile dire che la stragrande maggioranza dei paganti è lì per loro e il loro show attira il maggior numero di fan. La partenza è affidata a un estratto dall’ultimo “Chinese Democracy”, brano che in tutta onestà appare abbastanza ridicolo dal vivo, per poi passare a un trittico di brani del celebre “Appetite For Destruction”. Ebbene devo dire che avendo conosciuto e ascoltato quell’album fin dall’età di sette anni, forse più di qualunque altro disco, sentirli proposti in maniera assolutamente asettica è stata una grandissima delusione, tanto che senza alcun rimpianto ci siamo diretti verso il palco sul quale si sarebbero esibiti i deathster Entombed. Petrov, Hellid e soci sfoderano un muro di suono da fare impallidire pescando un po’ da tutti gli album più riusciti, tra cui “Revel In Flesh”, “Living Dead”, “Stranger Aeons”, “Wolverine Blues” e “Out Of Hand”, scatenando l’headbanging furioso dei loro sostenitori, fino alla conclusiva e reclamata a gran voce “Left Hand Path”, eseguita da manuale. Nel frattempo lo show dei Guns continua proponendo tutti i maggiori successi, ma considerato lo scarso grado di coinvolgimento (anche se va detto che Axl non se la cava male quanto a voce), decidiamo di fare ritorno al campeggio mentre in lontananza percepiamo in chiusura lo scoppio di vari fuochi artificiali per terminare la giornata.

Domenica 17 Giugno
La domenica presenta forse il bill meno avvincente dei tre giorni, vuoi perché com’è noto, lo show dei Black Sabbath è saltato e al suo posto troviamo Ozzy And Friends che i più avevano già visto l’anno precedente. Non a caso in molti fanno armi e bagagli e ritornano alle proprie abitazioni. La giornata poi presenta alcuni “buchi” meno interessanti e fatta eccezione per le Girlschool decidiamo di raggiungere l’area concerti solo nel primo pomeriggio per assistere all’esibizione dei D-A-D e dei Black Label Society. I primi fanno un concerto che punta molto sull’impatto visivo e su ettolitri di sudore versato correndo da un lato all’altro del palco, ma l’esecuzione non ne risente e si rivela piuttosto inattaccabile, fino alla riproposizione del loro maggiore successo “Sleeping My Head Away”. I secondi attirano la maggioranza dei presenti proponendo anch’essi i principali successi (peccato per la mancanza dell’ottima “Bleed For Me”) e non sbagliano una virgola per la gioia di tutti. Tuttavia, pur apprezzando molto i suoi lavori, bisogna ammettere che le loro composizioni tendono troppo ad assomigliarsi tra di loro, specie dal vivo e che il buon Zakk Wylde si prodiga in un assolo di cinque minuti che non ha né capo né coda, anche perché l’eccessiva distorsione non permette di distinguere bene le singole note. Segue poi un’altra ora o due di concerti meno avvincenti e decidiamo di fare una visita all’Extreme Market, un’area coperta di grandi dimensioni nella quale troviamo ogni genere di merchandising e stand da vari paesi del Mondo (tra cui anche alcuni molto forniti provenienti dall’Italia). Un attimo di riposo e ci rigettiamo in quel del Valley, sul quale si esibiscono i Rival Sons aggiunti negli ultimissimi giorni per una sostituzione. Il quartetto californiano è autore di una prova maiuscola, nonostante li conoscessi appena. Il loro rock/hard rock dinamico è davvero coinvolgente e il cantante Jay Buchanan sfoggia una voce magnifica che strappa al pubblico più di un applauso. In generale comunque è tutto il gruppo a convincere, per freschezza e capacità compositive.

La serata entra nel vivo e sul mainstage arrivano i Blue Öyster Cult, con il loro cupo hard rock. Come per i Megadeth anche il combo inglese ha dei suoni forse troppo bassi che rendevano le chitarre poco udibili, ma la band per fortuna appare in forma smagliante. Non avendo album recenti da presentare eseguono parte del miglior repertorio, tra cui “Burnin’ For You”, “Buck’s Boogie” e “Godzilla”, fino ad arrivare alla concitata “(Don’t Fear) The Reaper”. Finita l’ultima nota, ci lanciamo come molle ancora una volta al Valley, dove ci attendono in sequenza i doomster Pentagram e The Obsessed. Arriviamo quando la band di Bobby Liebling ha da poco iniziato uno show particolarmente infuocato a suon di brani del seminale “Relentless” e da quel disco estraggono la maggior parte dei brani in scaletta, senza però dimenticare tracce dagli altri dischi, come “Forever My Queen”, “Review Your Choices” o “Call The Man”. Forse sono stati un po’ trascurati album come “Day Of Reckoning” e “Be Forwarned”, ma sarebbe come cercare il pelo nell’uovo. Sale poi nuovamente sul palco Wino con i suoi The Obsessed e ancora una volta prova magistrale del nostro beniamino, che attinge a piene mani dai tre album pubblicati. Brani come “Brother Blue Steel”, “To Protect And To Serve” e “Freedom” finiranno inevitabilmente per prosciugarci le ultime energie rimaste. I Nostri poi chiudono nel migliore dei modi con la cover di “Iron Horse” dei Motörhead. Altra galoppata fino ai palchi principali per il gran finale di giornata con Slash, che, ahimè, si stava già esibendo alternando brani dei suoi ultimi lavori ai classici dei Guns che il giorno prima già avevamo sentito. D’altra parte però, in questa versione sono molto più efficaci di quanto non avessero fatto Axl e soci in precedenza. Vuoi perché le parti chitarristiche di Slash sono ovviamente più fedeli all’originale, vuoi perché il cantato di Miles Kennedy (Alter Bridge) in pratica è migliore di quello dello stesso Axl attuale. È il momento poi del Madman di fare il suo ingresso trionfale, un po’ come aveva fatto l’anno precedente con l’aggiunta della presenza di ospiti illustri in alcune canzoni come Geezer Butler, Slash e Zakk Wylde. Se da un lato la scaletta è molto simile a quella dell’anno prima (proponendo tutti i noti brani immancabili), dall’altro l’esecuzione appare un po’ meno brillante e la prestazione di Ozzy Osbourne è piuttosto deludente (ma si scuse più volte per un certo mal di gola). A questo poi si aggiunge una pioggia torrenziale che il vento devia anche sul palco e infine lo show sarà ridotto notevolmente, lasciando un po’ tutti con l’amaro in bocca. Un peccato.

Tirando le somme, festival complessivamente positivo, a parte qualche inevitabile disagio e un clima che tutti gli anni dimostra una fastidiosa e improvvisa variabilità. Altra pecca il fatto di trovarsi talvolta a dover fare delle scelte dure su quale artista andare a vedere, ma considerata la mole di gruppi presenti, forse non poteva essere altrimenti. Infine, metto l’accento sulla scarsa conoscenza dell’inglese da parte dello staff che spesso ti costringeva a tentare un improbabile francese: per allestire un festival internazionale è uno dei requisiti di base. Buona invece l’estrema eterogeneità dei gruppi, tale da accontentare un po’ tutti i gusti, con i due mainstage allestiti principalmente per i gruppi hard rock/heavy metal/power/thrash e affini, il Warzone per il punk/hardcore, il Valley per lo stoner/doom e il doppio Altar e Temple per black/death/grind. Migliore la nuova disposizione dell’area concerti, più funzionale e di conseguenza, chissà: non c’è due senza tre…