Recensione: A Winter’s Tale

Di Daniele D'Adamo - 10 Marzo 2017 - 20:27
A Winter’s Tale
Band: Abyssic
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2016
Nazione:
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90

Trovami il posto,
Da tempo lo cerco ma non lo trovo.
Io, lì, voglio morire.

Quando la determinazione supera tutto. Memnock, nel caso specifico. Mastermind dei doomster norvegesi Abyssic, ha inseguito il sogno del debut-album per diciannove anni. Dal 1997, anno di nascita del suo progetto, sino al 2016, anno di uscita di “A Winter’s Tale”. Passando per vicissitudini varie, soprattutto inerenti la ricerca di una line-up capace di metter su disco l’ora e venti di musica che gli ronzava per la testa. Ce l’ha fatta, e, ora, si possono cantare le sue gesta.

Cantare… di visioni gigantesche, rapite da luoghi immaginari, coperti di foreste, ove svettano incommensurabili bastioni di roccia viva, alti chilometri e chilometri, come mai visti, sulla Terra. Cime sulle quali impera, rigido e inflessibile, l’inverno eterno, il ghiaccio perenne. Il dono di quest’immaginazione non è un caso: è il frutto delle titaniche orchestrazioni del geniale Andre Aaslie, pure coinvolto nei mirabili Images At Twilight. Stavolta, però, le sterminate sinfonie spingono la musica a rallentare indefinitamente, sino a raggiungere i radi cinetismi del doom. Un doom molto melodico, totalmente avvolgente e coinvolgente. Symphonic doom. Meglio ancora, orchestral doom.

Imperiose armonie pressano la cassa toracica obbligando il cuore ad abbassare il numero dei battiti. È così, che vuole il doom di “A Winter’s Tale”: una completa, totale, assoluta immersione nel reame dei ritmi lenti, in cui regna la potenza delirante del metallo puro, che cozza, lentamente – come iceberg contro iceberg – , contro l’esagerazione della velocità, qui assente. Fatta eccezione per ‘Sombre Dreams’, una delle quattro suite-capolavori di cui si compone il disco. Lì, stranamente, il doom si trasfigura, mutando forma e sostanza nei due generi estremi – death e black – che, assieme, fondendosi, danno luogo a violentissimi strappi, veementi accelerazioni. Ma è solo lì, che si compie la trasformazione. Altrove, e cioè nelle altre tre grandi song, ‘Funeral Elegy’, ‘A Winter’s Tale’ e ‘The Silent Shrine’, il growling sofferto Memnock guida gli altri compagni di avventura in direzione della completa desolazione. Il doom, siffatto, amplifica oltremodo i sensi, acuisce un’indefinibile sensazione di pericolo immediato. Primordiale rimando al terrore degli avi nei confronti delle creature notturne che popolavano i boschi boreali.

La colossale impronta sonora della title-track vale da sé l’acquisizione perpetua, in sé, di “A Winter’s Tale”. In quasi mezz’ora di canzone sembra di ascoltare il lento, doloroso, drammatico racconto dell’Uomo, molecola infinitamente piccola rispetto alla magnificenza della Natura. I sofferti riff che si trascinano l’uno dietro l’altro, tenuti assieme dalle legature sinfoniche di Aaslie, strappano la coscienza dalla mente, per estraniarla nella più completa spiritualità. In queste condizioni, oniriche sino all’allucinazione, si possono percepire con forza i propri rapimenti, le proprie passioni, le proprie, più profonde, emozioni. Confluenti come immissari nello sterminato Lago della Solitudine, celato sul più elevato altopiano che giace sulle sterminate, monumentali catene montuose viste prima.

Memnock è il cantore della tristezza. Che, in quello specchio d’acqua, appena accarezzato da lievi refoli d’aria, increspa leggermente la sua superficie, a tempo con la successione degli accordi di chitarra, facendo così risplendere, quando il sole tramonta, luccichii rossastri. Forse gli angeli, forse i demoni, forse le anime perse, forse gli dei, forse… Dio. La declinazione verso il crepuscolo, istintiva in mezzo a tale magnificenza, è irreversibile. Gli Abyssic, quando sprofondano nelle grandiosità dell’anima umana, sondano contemporaneamente gli ambiti più nascosti dell’anima stessa. Angoli bui, sconosciuti anche a chi li possiede dentro. Il doom è genere incredibile, quando però interpretato in tal modo, in grado di entrare nel corpo per poi dilatarsi sino a occuparne tutto l’interno, giungendo quindi al limitare degli strati inferiori della pelle. Così facendo, assorbe ogni cosa. Materiale, e spirituale. E, gli Abyssic, con il loro sconfinato talento compositivo, riescono ove tanti falliscono.

È tempo di morire. Ma loro ci sono. Sono lì, accanto. Come fidi compagni dell’ultimo viaggio che ha traslocato l’essenza vitale sull’apogeo dell’esistenza, lassù, su quelle sommità note solo a loro.

Dopo, solo il nulla. Oh, dolce nulla!

Daniele “dani66” D’Adamo

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