Recensione: Abiogenesis

Di Marco Tripodi - 21 Settembre 2017 - 8:00
Abiogenesis
Band: Korea
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2017
Nazione:
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68

In biologia, generazione spontanea di organismi viventi nelle condizioni primordiali del pianeta terrestre, a partire da composti inorganici e organici piuttosto semplici” – questa l’abiogenesi, senza ombra di dubbio un concetto molto “prog”, una cornice che calza come un guanto ad una band che intende tradurre in musica la propria indole analitica, verticale, articolata, il proprio voler andare in profondità rifuggendo le vie brevi. E però i Korea, a dispetto del nome evocativo e cosmopolita (la band fa base a Stoccolma) e dello sguardo speculativo scientifico, non sono prog, anche se ad un primo distratto ascolto potrebbero sembrarlo. L’attitudine c’è, non di rado si potrebbe pensare a dei Dream Theater meno ancorati al metallo e più orientati verso le malinconie e le paturnie esistenziali (alla “Falling Into Infinity“, per intendersi). Qui però c’è dell’altro ed ha un peso specifico assai maggiore. Ci sono le ansie, le angoscie, le albe e la rugiada degli epigoni di nomi quali Katatonia, Incubus e mi sono persino tornati alla mente i Manic Street Preachers di “If You Tolerate This Your Children Will Be Next” – tormentone datato 1998 che, riproposto oggi, farebbe strage di cuori tra i fan di Colplay e Keane – non tanto per la complessità architettonica, quanto per umori ed atmosfere di fondo.

Questi coreani di Svezia sono giunti al terzo album raffinando sempre più la loro proposta. Raffinazione è il termine esatto, poiché le sonorità proposte su “Abiogenesis” sembrano il risultato di un maniacale lavoro di limatura, perfezionamento, estenuante quadratura del cerchio. Non una nota fuori posto (al di là del gusto soggettivo che vi porterà a gradire o rifiutare la proposta dei Korea), tutto è estremamente elaborato, meditato, limato, calcolato, soppesato. Il tono di questi 50 minuti abbondanti di musica è morbido, pastoso, sferico, eppure al contempo un senso di inquietudine, di lieve angoscia, di apprensione verso il domani e di turbamento verso il presente risale lento ma inesorabile dallo stomaco lungo il vostro tubo digerente, su su fino al palato, lasciandovi un sapore amarognolo in bocca che genera disagio e struggimento. I Korea sono polarizzati da una doppia anima i cui opposti elettrodi rilasciano scariche che vanno dal bel tratto alla depressione. La qualità della band sta nell’amalgama degli antipodi.

Personalmente devo ammettere di aver fatto fatica a digerire la timbrica di Michael Ehrnstén (uno dei due fratelli Ehrnstén in formazione), tastierista e cantante del combo scandinavo. Una sorta di Klaus Meine trapiantato nell’universo dell’alternative rock di lusso, fin troppo indulgente nei toni lagnosi e lamentosi. Un po’ più di nerbo virile avrebbe infuso alle canzoni maggior vitalità e brillantezza. Certo, non dico che un album dalle sonorità di “Abiogenesis” avrebbe potuto ospitare il Ronnie James Dio della situazione, sarebbe stato come mettere del ketchup su delle tartine al salmone, ma perlomeno un James Christian, per dire, avrebbe aiutato ad integrare quella mancanza di testosterone che un po’ si avverte lungo lo sciorinare grigio ed autunnale dei Korea. Tutto sommato si tratta di un buon album, ben prodotto e altrettanto ben suonato da una band che sa essere creativa e volenterosa. Certo, il sound deve piacere perché altrimenti per chi fa professione di “truismo” senza se e senza ma c’è da rimanere scornati. Rock, sovente hardizzato e tenace (perlomeno a livello di chitarre, assai meno come linee melodiche e vocali) di assoluta gradevolezza, modernità e maturità. Potrebbe sorprendere molti metallers, perlomeno quelli più open minded. Concedergli una chance di ascolto sarebbe segno di intelligenza.

Marco Tripodi

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