Recensione: All The Way

Di Eric Nicodemo - 4 Settembre 2014 - 7:57
All The Way
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2014
Nazione:
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84

 

Personalmente, non ho mai giudicato un album dalla copertina. E penso che altri condividano questa posizione, se gli State Of Salazar hanno deciso di scegliere una cover così scherzosa ed innocua. Il motivo? Semplice: essere consci della qualità della propria musica, un aspetto che i Nostri svedesi hanno intuito, trovando conferma nell’entusiastica accoglienza dell’EP “Lost My Way” (2012) da parte della stampa specializzata. D’altronde, è di musica che stiamo parlando ed il resto passa in secondo piano quando si può contare su un debut album come “All The Way”.

Se, infatti, ci basassimo solo sulla “disimpegnata” copertina, si potrebbe pensare ad un esordio ancora acerbo o eccessivamente derivativo ma non è così: l’opera prima degli State Of Salazar propone un fantastico crogiolo di rock melodico, ricco di grazia, forza e passione, la cui linfa vitale scorre copiosa nell’opener “I Believe In You”, dove il concetto di felicità viene tradotto in musica e custodito nel refrain solare. Ci troviamo di fronte alla canzone d’estasi per antonomasia, il palcoscenico dove il singer Marcus Nygren dimostra tutto il suo talento, che irrora le strofe di frizzante vitalità. Un quadro armonioso, a cui partecipano assoli e cori dorati, carichi di serenità e voglia di vivere.

Da quanto detto, la scelta della copertina di “All The Way” non sembra più così casuale o fuori luogo: il paffuto neonato simboleggia la spensieratezza di una musica che ci fa esultare con la stessa spontaneità di un giovane sbarbatello. L’impressione è, dunque, che gli State Of Salazar vogliano ospitarci in quella “Neverland” dove è ancora permesso sognare una musica libera da un’esistenza malinconica. “Field Of Dreams” rappresenta questa “dittatura del buon’umore”, popolata dalle proprie aspirazioni, con il grintoso frontman che sa risvegliare la nostra forza di volontà, senza eccedere nel ruvido hard rock, messo a freno con la delicatezza di un refrain rallentato.

Già dai primi ascolti, abbiamo capito di ammirare un arcobaleno di melodia festosa e appassionata, chiave indispensabile per aprirci l’accesso ad un platter sempre all’insegna delle vibrazioni positive, che prevalgono e scacciano il dolore nel magico ritornello di “All The Way”. La title track rispecchia la vita umana, con i suoi momenti di tristezza e le sue gioie: la parti vocali fanno convivere tonalità sofferenti (nel pre-chorus) con tutto l’entusiasmo del ritornello centrale. La jam session di chiusura ancora una volta non mente sulle qualità del combo: le chitarre accentuano il loro carisma sofferto ed elegante, ed il coro finale cattura una melodia struggente, quasi più appagante del refrain.

L’AOR dei Nostri si nutre sempre di sensazioni famigliari e situazioni romantiche, quasi biografiche, che portano in dote l’attesa ballad pianistica “Love Of My Life”. Ascoltando i delicati tocchi, potrete innamoravi di un motivo tanto semplice quanto affettivo da comporre una poesia intima e penetrante sulle note del piano.

Dopo tanta elegia, un titolo come “Eat Your Heart Out” sembrerebbe fuori posto: parole grintose che vengono raffinate e mitigate nei soavi backing vocals, i quali fanno rinascere quella grazia ariosa, argentina di cui i Toto andavano fieri. Inutile descrivere quanto sia espressiva la chitarra, nel cui assolo ci smarriamo, una volta tanto incuranti delle nostre paure, delle nostre critiche e delle nostre fissazioni, completamente in balia del nostro cuore.

Siamo ancora all’inizio e “Time To Say Goodbye” non ha per niente l’atmosfera di un lungo addio ma ci offre l’ennesimo invito a vivere, un inno all’armonia fatto librare da un voce incredibile, in un cielo solcato dalle tastiere briose e da riff vividi come una promessa indelebile. Ancora un altro frammento di gioia trasposta in musica, nel firmamento di “All The Way”

Già, perché questo disco trasmette le stesse emozioni di un panorama che lascia senza fiato e in questo incantevole paesaggio “Marie” rappresenta il suo tramonto, romantico ed infuocato. Non importa se saremo rapiti dalle note agili e gentili del piano, o dalla voce calda e ammaliante, perché l’obiettivo è raggiunto se, trasportati dai cori, ci ritroveremo ad ascoltare rapiti mentre i minuti scorrono via con scioltezza disarmante, senza tralasciare una sola nota di questo dolce naufragio.

Dopotutto, farsi sedurre da canzoni come “Let Me love” non è cosa difficile, mentre i tasti ci cullano come il lambire delicato delle onde, che, mosse dal vento, si increspano contro gli scogli, infondendo un pathos intrappolato e riprodotto da un guitar solo di puro feeling.

Ormai ebbri di questo nettare a base di “rock raffinato ed adulto”, un titolo come “Catastrophe” potrebbe quasi spaventarvi. Ma non temete, qui si parla di una tempesta di cuore, scossa dai battiti del piano e dai brividi delle keyboards. In questo subbuglio di sentimenti, il combo può ancora coglierci di sorpresa, con guizzi creativi e spunti originali pur rispettando la tradizione: gli State Of Salazar sanno sempre come intrigare lo spettatore smaliziato, inserendo attimi d’attesa (synts d’atmosfera) o sfumature vitali, dipinte da un collettivo di strumenti, dove la chitarra raggiunge vette di grande intensità espressiva.

Always” è ancora un esempio di groove e classe cristallina, mente e cuore in eguale quantità come dimostra un songwriting che sa mediare e sposare l’immediatezza con arrangiamenti ispirati, modellati su tonalità mai troppo statiche ma sempre dinamiche e coinvolgenti.

Certo, il DNA di un complesso come questo ha geni ben definiti e, per quanto “Adrian” sia l’ennesima conferma di un sound raggiante, c’è sempre da rimanere incantati quando questa musica irradia sprazzi di energia blues e rock avvolgente. Insomma, è ormai un’attrazione ipnotica, un po’ come se stessimo ammirando quei bellissimi occhi di cui conosciamo già ogni dettaglio, pur senza riuscire a distogliere la vista.

E come “Adrian” mostra il suo retaggio dalla prima all’ultima nota, la programmatica “End Of Time” conclude degnamente la nostra estate conducendoci per mano su una via lastricata di ricordi e sensazioni evocate dall’immancabile registro di pianoforte, discreto ma deciso, che trova il suo interlocutore nella voce sofferta o in un guitar play infinitamente languido.

Con “End Of Time” si conclude l’ascolto di “All The Way”, in modo non diverso dal finire un romanzo tanto amato o richiudere un album pieno zeppo di bei ricordi e piacevoli sensazioni. Memorie e suggestioni perché “All The Way” rappresenta l’erede di quell’AOR più raffinato e solare che ritroviamo nei solchi di un LP dei Toto o nelle ballads più cullanti dei Journey, lasciando i pruriti adolescenziali all’hard rock e al glam metal più cotonato.

In questo modo, gli State Of Salazar propongono uno stile maturo ed intimista, che non sopravvive con la ricetta “riff epidermico – ritornello catchy” ma presuppone un approccio meno impulsivo e più sentimentale, più poetico, basato su midtempos caldi ed enfatici. Non a caso, la rotta è indicata da un main vox perfettamente calibrato in ogni singolo pezzo, linee vocali che modellano la melodia, ora, con timbrica più calda ed accesa (di stampo “hard blues”), ora, più delicata, in modo che in una stessa canzone le tonalità siano fluenti e mai troppo statiche (pur prediligendo spesso il mood rallentato e romantico delle ballads). Così, la grande interpretazione di Nygren e l’elevato tecnicismo dei suoi compagni contribuiscono alla creazione di una setlist ammaliante e levigata, eliminando la presenza di evidenti filler, con il risultato di lasciare soddisfatti fino all’ultima canzone (ferma restando la distinzione tra brani eccellenti e pezzi semplicemente ottimi). E’ consigliabile, dunque, ascoltare l’album nella sua interezza per assaporarne tutte le sgargianti sfumature. D’altra parte, forse, il difetto più grande di “All The Way” (assieme all’assenza di sostanziali novità) è un’eccessiva mancanza di parti più hard’n’roll oriented, ed i rockers alla ricerca di emozioni più spicce e dirette potrebbero stancarsi di essere cullati da tanta controllata, soave melodia.

Una “mancanza” che probabilmente non disturberà coloro che amano l’AOR, perché se cercate la vera essenza di questa musica la troverete di certo in “All The Way”.

 

Eric Nicodemo

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