Recensione: Behind The Veil

Di Marco Tripodi - 31 Maggio 2018 - 8:00
Behind The Veil
Band: Pamela Moore
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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67

Per qualcuno Pamela Moore rimarrà sempre e soltanto la Sister Mary di “Operation: Mindcrime“, finendo così con l’ignorare una carriera che era già partita prima e che è proseguita ampiamente dopo quel seminale album del 1988. Il “prima” sono due album, “Take A Look” e “You Won’t Find Me There“, rispettivamente dell’81 e dell’82, nella quale la cantante di Seattle iniziava a farsi le ossa, muovendosi all’interno di un panorama pop-rock. Chitarrista, cantante, performer di teatro, la Moore si fa notare ottenendo anche discreti consensi, ma gli immancabili problemi finanziari della casa discografica ne tarpano momentaneamente le ali. La grande occasione arriva con i concittadini Queensryche, i quali la scritturano tra i personaggi del loro concept album poi passato alla storia. Pamela li segue anche dal vivo, inanellando molti concerti che le permettono di affinare il suo talento e far circolare il proprio nome. Dopo “Operation: Livecrime“, assume il ruolo di front-woman nel progetto newyorkese Radar. Esce “R.P.M.” (2000), un delizioso dischetto di robustissimo hard rock, coadiuvato da band mates quali Scott Novello (Adrian Gale) i fratelli Steve e Russ Salerno, ed una manciata di altri carneadi di cui purtroppo non si ricorderà nessuno (anche perché i Radar partoriscono quell’unico album) ma dei quali invece vi consiglio caldamente di recuperare il platter, perché merita davvero.

Pamela ritiene che evidentemente i tempi siano maturi per tentare la carriera solista. Il suo primo lavoro data 2006, “Stories From A Blue Room” (ma lo precede la partecipazione all’ennesimo live dei Queensryche, “Live Evolution“); il curriculum batte enfaticamente sul coinvolgimento in “Operation: Mindcrime” e non potrebbe essere altrimenti, vuoi perché nel fattempo arriva nei negozi il sequel “Operation: Mindcrime II“, che recluta nelle proprie fila nuovamente la Moore, vuoi perché la nostra amatissima Sister Mary deve darsi un’dentità e sfruttare qualche credenziale di prestigio. Chi pensa che si tratti di una mera operazione commerciale rimane deluso – o piacevolmente sorpreso – perché l’album è eclatante. Prodotto da Neil Kernon e supportato da super ospiti quali Terri Nunn, Jeff Loomis e Michael Wilton, “Stories From A Blue Room” è un concentrato di metal potentissimo, dal taglio moderno e vagamente dark, che incrocia in qualche misura i Queensryche con i Nevermore. Una scaletta perfetta, un’autentica bomba sganciata da Pamela Moore sul mondo. Inizia la ridda delle partecipazioni e delle collaborazioni (Eden’s Curse, Solna), fino al 2013, quando Pamela consolida la sua carriera solista con “Resurrect Me“, ed è un altro centro, un’altra freccia scoccata esattamente dove la tabella dei punti segna il massimo. Stavolta al songwriting collabora Michael Posch dei Radakka. Jeff Loomis è sempre in squadra ed a lui si aggiungono pure Randy Piper e Ralf Scheepers.

I Queensryche non mollano la Moore che anziché lasciare raddoppia, poiché viene imbarcata pure nella versione senza Geoff Tate, ovvero nell’album omonimo del 2013 che segna l’ingresso in formazione di Todd LaTorre come nuovo front-man. Tra live e lezioni come vocal coach, la Moore affronta la stesura del suo terzo capitolo solista che la porterà al qui presente “Behind The Veil“, fresco fresco di pubblicazione. Al basso troviamo nientemeno che Rudy Sarzo, il quale fa coppia ritmica col drummer Casey Grillo (già dietro le pelli per Kamelot e Queensryche); Michael Posh si assesta alla chitarra, assieme alla new entry Craig Church. Rimangono in famiglia pure i vari Ralf Scheepers e Randy Piper. Era lecito aspettarsi un altro piccolo gioiello dalla Moore perché questo è ciò a cui ci ha abituato nel corso degli anni, tra release centellinate ma sempre di enorme qualità. “Behind The Veil” conserva molti aspetti dei suoi predecessori, lo stile rimane sostanzialmente immutato, metal moderno, fragoroso, dalla produzione grande e tagliente; composizioni emotive, oscure ed aggressive al contempo. La produzione è eccellente, così come tutto ciò che compete alla strumentazione. La voce di Pamela è meravigliosa, un’interprete ricca di sfumature e carisma. Quello che in effetti manca è il peso specifico del songwriting. Se la confezione mantiene gli standard di eccellenza del marchio Moore, le canzoni in sé e per sé stavolta acchiappano meno, convincono meno. L’apertura affidata a “Rise” e “Sickness” tiene abbastanza botta, ma poi il livello scema. Si arriva a citare un terzetto degno di nota, includendo magari anche “Undertow“, ma per il resto “Behind The Veil” si attesta su ranghi decisamente inferiori, meno bombastici ed entusiasmanti.

Sarà forse la mancanza di Loomis, sarà un certo ripercorrere schemi oramai assai collaudati da parte della Moore, ma al di là delle notazioni di merito per la sua ottima voce (abbinata ad una seducente presenza scenica), per la classe esecutiva dei musicisti, per un buon livello di maturità generale dell’album, non si sente il cuore strozzato in gola, come capitava dopo pochissimi minuti di ascolto di “Stories From A Blue Room” e “Resurrect Me“. Se questo platter vi sembra caruccio provate a recuperare quelli, c’è la stessa differenza che corre tra mangiare e stare a guardare, dicono dalle mie parti. Affatto un album da bocciare, intendiamoci; eleganza e professionalità abbondando, però dal primo della classe ci si aspetta sempre il non plus ultra, ed anche un lavoro dignitoso – ma soltanto tale – rischia di sembrare un mezzo fallimento. Passaggio interlocutorio e leggera flessione per Pamela Moore; il rischio è che, non trattandosi di un’artista di primissimo piano, anche un solo passo falso possa ipotecarne la carriera, le seconde chance sono solitamente appannaggio di nomi grossi e blasonati. Tuttavia mi auguro vivamente che non sia così, sarebbe un vero peccato non poter più godere della maestosità e della versatilità di una voce così bella.

Marco Tripodi

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