Recensione: Blood Moon Rise

Di Carlo Passa - 23 Settembre 2013 - 12:33
Blood Moon Rise
Band: Jex Thot
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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58

Secondo album per Jex Thot, band statunitense omonima della propria cantante e leader, oltre che autrice di tutti i testi e le musiche.
Il genere proposto è un ibrido di radici doom e psichedelia, con un pizzico di attitudine goth. Più rock che metal, Blood Moon Rise ruota intorno alla voce, in vero evocativa e adatta al genere, di Jex, che riesce ad azzeccare alcune melodie di livello e a tratti accattivanti. Ascoltate, ad esempio, The Places You Walk, capace di rimanere piacevolmente dinamica anche a fronte di un giro piuttosto ripetitivo e non particolarmente originale.
Certamente buona anche The Divide, forse la canzone più tipicamente doom del lotto, fatta di tempi lunghi e riff dilatati che la voce di Jex sa rendere ariosi nella bella apertura centrale. Non aspettatevi, comunque, i Sabbath o i Candlemass: Jex Thot propone musica più morbida e del tutto priva di quella cadenzata epicità che è propria di un certo doom.
Un difetto del disco è di risultare un poco pretenzioso, come in Into A Sleep, una nenia semplicemente noiosa che si fatica ad ascoltare fino alla fine. Per fortuna, la dolce Keep Your Weeds arriva a sollevare le sorti di Blood Moon Rise, riuscendo finalmente a creare un’atmosfera ovattata e davvero psichedelica senza scadere nella staticità autoindulgente. Il ritornello vale, da solo, l’intero disco. Ma il gioco è bello se dura poco ed Ehjä, che ricalca la struttura di Keep Your Weeds, non ne sa ripetere la  capacità evocativa e, tutto sommato, risulta tediosa.
Torna il doom con The Four of Us Are Dying, che però non fa altro che ammorbare l’ascoltatore con un impasto mal riuscito di tempi più o meno lenti e di melodie incerte.
Psyar è una ballata melanconica e chiude il disco, proponendo qualche buona idea, soprattutto a livello di arrangiamento, ma in sostanza non spingendosi oltre a un compito fatto benino.
Blood Moon Rise è il lavoro di una band che dà l’idea di non avere ancora ben chiaro quel che vuole fare ed essere. I pezzi sfuggono a una catalogazione univoca, il che non è di per sé un male; tuttavia, nel caso di Jex Thot, la cosa è più segno di confusione che di varietà.
Merita una menzione la splendida copertina in odor di liberty.

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