Recensione: Caress Of Steel

Di Mauro Gelsomini - 17 Agosto 2003 - 0:00
Caress Of Steel
Band: Rush
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1975
Nazione:
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90

Forse mi sono preso la briga di recensire quello che è l’album più controverso del trio canadese, a giudicare dai dissensi e dalla diversità di opinioni che ha suscitato nella critica e nei fan. Gli stessi Rush non lo considerano tra i loro capolavori, e la registrazione rispecchia questa turbolenza.
Caress Of Steel è in un solo album il vaso di Pandora da cui scaturiranno i dischi seguenti, in continuo divenire e senza un punto di raccordo, fatto salvo, ovviamente, il sound inconfondibile della band. Tuttavia il disco, terzo in ordine cronologico nella discografia, è l’inevitabile anello di congiunzione tra il metal degli inizi e il progressive che caratterizzerà le fasi successive della produzione. Sono ancora poco evidenti i fini arrangiamenti di 2112 o Hemispheres, anzi, la registrazione è decisamente grezza e senza fronzoli; nessun sintetizzatore a riempimento di un suono a volte senza colore e dannatamente heavy metal.
E’ proprio l’inclinazione più metallica ad aprire questo album, con la song – “Bastille Day” – che diverrà l’opener fissa di molti live show, e che mi permetto di considerare una delle più grandi rock song di sempre: sebbene molti “costrinsero” i Rush a deviare il loro stile dall’ingombrante paragone con gli Zeppelin, non ho mai sentito (neanche nel debut) una band clone di un’altra. Si tratta a mio parere di metal settantiano, sì, ma dal sound già ben definito e personalissimo; se poi devo proprio insistere nel paragone con i Led Zeppelin, qui ci troviamo di fronte a una metal band vera e propria, molto più energica e trascinante, dallo stile immediatamente riconoscibile, a partire dalle linee disegnate dalla timbrica rusty e high pitched di Geddy Lee.
Più blueseggiante, e quindi oldfashioned, potrebbe risultare “I Think I’m Going Bald”, ma spiazza anch’essa per l’accostamento tra liriche tristi e profonde sulla caducità della giovinezza, e il riffing sbarazzino, in tipica tradizione Rush. Segue “Lakeside Park”, malinconica song su uno dei luoghi dell’adolescenza dei nostri, in quel di Toronto: evidenti gli elementi di natura prog in un pezzo apparentemente composto.
Il clue arriva con la lunga “The Necromancer”, disseminata di monologhi narrativi che donano epicità alla già evocativa voce di Geddy Lee, alle prese con liriche liberamente ispirate ad autori come Tolkein e Howard. La song si divide in tre movimenti. Il primo, “Into The Darkness”, quasi lugubre come già accennato, si trasforma presto nel secondo, “Under The Shadow”, in cui si rafforzano i ritmi, pian piano, fino all’inebriante jam strumentale presieduta dalla chitarra di Lifeson. Chiude la suite “Return Of The Prince”, sui toni pacati dell’incipit, stavolta rallegrati dall’happy ending. Una delle migliori song dei Rush.
Ancora epicità a mille per la suite – e stavolta è il caso di dirlo, visti i suoi venti minuti – conclusiva del platter, “The Fountain of Lamneth”, opera nell’opera, come sarà 2112, su cui poggia il lirismo pretenzioso di Peart, intento a raccontare della ricerca di un sogno inafferabile… La struttura circolare della song si snoda tra un abbrivio (“In The Valley”) e un finale (“The Fountain”) classico-acustici e dalle vocals struggenti di Geddy. Essi racchiudono altri quattro movimenti di una varietà sorprendente, ricca di tutto ciò che ascolteremo nei successivi tre (almeno) lavori: dall’energia del pezzo più power che vi viene in mente alla ballad più tranquilla, i tre funamboli si producono in un meraviglioso chaos progressivo, perfettamente adatto a descrivere l’insidioso cammino di chi insegue l’inarrivabile, nello specifico reso dall’allegorica fontana, il raggiungimento della quale coincide con la scoperta tutta leopardiana, da parte del protagonista, per cui il raggiungimento di un sogno non è tanto eccitante quanto la sua attesa.
Forse è proprio questo l’atteggiamento con cui i Rush si sono sempre posti di fronte alla loro musica, continuando ad essere, disco dopo disco, ascolto dopo ascolto, la band più fresca e originale in cui io abbia mai avuto il piacere di imbattermi.

Tracklist:

  1. Bastille Day
  2. I Think I’m Going Bald
  3. Lakeside Park
  4. The Necromancer
    I. Into The Darkness
    II. Under The Shadow
    III. Return Of The Prince
  5. The Fountain of Lamneth
    I. In The Valley
    II. Didacts And Narpets
    III. No One At The Bridge
    IV. Panacea
    V. Bacchus Plateau
    VI. The Fountain

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