Recensione: Cloud Eye

Di Stefano Burini - 15 Febbraio 2014 - 9:05
Cloud Eye
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Anno: 2013
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80

Che gli Elevators To The Grateful Sky avessero delle potenzialità lo si poteva intuire semplicemente ascoltando il loro demo omonimo targato 2012; ciò nonostante, una crescita esponenziale come quella di cui si è resa protagonista la band siciliana nel corso dell’ultimo anno sarebbe stata in ogni caso davvero difficile da pronosticare.
 
Rispetto al suo predecessore, il nuovo “Cloud Eye” rappresenta, infatti, un gigantesco passo in avanti sotto tutti i punti di vista. Laddove, per esempio, le pur buone “vecchie” canzoni, rimanevano ancora un po’ troppo legate alla lezione dei grandi maestri del passato, i nuovi pezzi mettono in luce una grandissima personalità e un ispirazione davvero non da tutti, con il surplus dato una produzione di alto profilo e da un packaging globalmente molto curato. 
 
Il genere prediletto dagli Elevators rimane lo stoner rock dei primi anni ’90, come sottolineato dalle robuste distorsioni di chitarra e in seguito ribadito dalle frequenti fughe di stampo psichedelico. Il vero asso nella manica è, tuttavia, da ascriversi alla grande abillità nel colorare ognuno dei pezzi proposti in maniera del tutto caratteristica, senza mai perdere il filo dei discorso e dando, anzi, prova di una profonda cultura musicale. 
 
L’opener “Ridernaut”, animata da riffoni stoner/groove e screziata da geniali scorribande di armonica, meriterebbe un capitolo a parte, viste la qualità e la quantità di idee messe in campo, ma è l’intero album a funzionare in maniera praticamente perfetta, sicché, pur nella forte eterogeneità delle influenze e delle soluzioni, la tracklist si rivela sostanzialmente priva di discontinuità e di cali di tono. 
 
Nel volgere di pochi istanti si passa, infatti, con estrema facilità e naturalezza dall’heavy oscuro e sabbathiano dell’ottima “Sonic Bloom” alle riminiscenze puramente King Crimson-iane della superba “Red Mud”, giù giù fino alle puntate hardcore punk di “Turn My Head” e della scatenata “Upside”. Ma anche brani brani fortemente improntanti all’hard settantiano come “Handful Of Sand” e la title track o, ancora, le prog-oriented “Sirocco” e “The Moon Digger” (e senza tralasciare la strumentale “Mirador” e l’autoreferenziale “Xandergroove”) non mollano certo il colpo, conducendoci al gran finale riservato alla Kyuss-iana “Stone Wall”.
 
Ce n’è per tutti i gusti, insomma, e va ribadito che gli isolani, oltre a mettere moltissima carne al fuoco, dimostrano di saperla cucinare con grande perizia. Per i patiti di gruppi come Kyuss, primi Black Sabbath, Mastodon e The Melvins/Corrosion Of Conformity, “Cloud Eye” è un album assolutamente consigliato; per il futuro, vista la strada intrapresa dagli Elevators To Grateful Sky, ci sarà da aspettarsene delle belle.

Stefano Burini

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