Recensione: Descending Patterns

Di Roberto Gelmi - 2 Agosto 2014 - 14:10
Descending Patterns
Band: EpisThemE
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Anno: 2014
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Per ἐπιστήμη, in filosofia, s’intende la conoscenza incontrovertibile, che si regge da sola: questo il moniker ambizioso scelto da una giovane band catanese, nata nel maggio del 2010, da un’idea del bassista Riccardo Liberti, già attivo, in ambito underground, con Noble Savage, Dark Maze, Denied, Kem in Eye e My First Damnation.
Il gruppo ab ovo è un progetto in studio, con brani scritti solo da Liberti, causa irreperibilità di session man per esibizioni live. Nel settembre del 2010 Riccardo propone al batterista Daniele Spagnulo (Devuoring Sorrow, Jem in Eye) di unirsi a lui; è quindi la volta del chitarrista Francesco “Seven” Coluzzi. All’inizio del 2011 sono pronti i primi materiali per un platter, però manca in line-up un cantante.
Nel giugno del 2012 gli EpisThemE entrano in studio per registrare in presa diretta le prime cinque composizioni in sé concluse. Ad agosto reclutano alla voce Valentino Valenti (Noble Savage, Mendoza, Jem in Eye), cui subentra Luca Correnti (Mystura, Sinoath, inqbdimaja) nel maggio 2013. Qualche mese più tardi, a novembre, Enrico Grillo rinfoltisce la formazione della band e, in tempi recentissimi, aprile 2014, esce finalmente Descending Patterns, frutto del lungo e travagliato percorso dei siciliani testé descritto in breve.

Un logo (opera di Federico De Luca) dalla glaciale simmetria pseudo-nordica e una copertina concettuale, con uno scorcio su toni cupi di una scala, che pare condurre, lungo una catabasi misteriosa, in un erebo imperscrutabile: questo l’invito dei nostri, all’ascolto di un metal di stampo progressive/thrash (ma l’etichetta di genere è limitante) con parti melodiche in clean vocals.
Il full-length si presenta ricco di attrattive e, come leggiamo dal press kit, «abbraccia la consapevolezza della decadenza di una moltitudine di valori che circondano l’essere umano. È una sorgente di odio e d’introspezione quella dalla quale sgorgano e fluiscono intense le emozioni».
Le attese sono alte, inseriamo, dunque, il disco nel lettore e dedichiamo mezzora di tempo immergendoci nell’ascolto di Descending Patterns.

Niente indugi per l’attacco di “Eyeland”, brano da subito diretto come un pugno in faccia. Scream vocals, drum work coinvolgente e dopo sessanta secondi un break opethiano con Luca Correnti che stupisce in clean, per poi tornare a graffiare rabbiosamente («leave me alone / paranoid and bruised, I pretend not to be scared»). Il comparto ritmico è chirurgico, le influenze di Akerfeldt & Co. palesi anche nelle sezioni metal.
Ancora chitarre droppate in apertura di “Erase That Frame”, con unisoni peregrini di basso e chitarra. Testi laceranti («I cannot bear this life, there’s no guiding light / how d’you want me to stand in line?»), accordi affilati e incedere arrabbiato: non manca la coerenza d’intenti, ma tutto è abbastanza prevedibile, anche l’alternanza delle tipologie vocali. La seconda parte del brano regala maggiore eclettismo, con toni languidi ed evocativi, tra arrangiamenti semiacustici e linee di basso spigolose, ma efficaci. L’assolo di chitarra al sesto minuto è ispirato, così le ritmiche martellanti in chiusura, che ricordano quelle introitali di “The Mirror” dei Dream Theater, ma risultano troppo ripetitive nei primi secondi di “Silent Screaming”. Titolo ossimorico, quest’ultimo, e liriche allucinate («all I see is a blinded hallucination / frozen paroxysm […] plain void is inside my head / mindless involution») per un brano dall’andamento sforzato. Convincono di nuovo le strofe in clean, ma siamo ben lontani dalla genialità degli Opeth o dei Novembre.
Shades of May” attacca con un tiro semiacustico (Graziano Manuele è ospite alla chitarra) e il basso di Liberti a saturare un sound sempre pieno. Spagnulo regala qualche finezza al rullante e la traccia si snoda per meandri suggestivi e velati di melanconia. Un cameo strumentale tra i momenti migliore del platter.
Tornano le ritmiche serrate à la Nevermore in “Blind Side”, composizione che nei suoi sei minuti e mezzo delinea un’immagine sonora dimidiata tra sano sfogo vocale e testi al limite dell’ermetico («inside the mainframe / of your half-heart shaped and pale blind side / to the mainframe of your blind side»). Molta ambizione, ma poca originalità: la ripetitività si sente e il refrain è troppo esile.
Siamo in dirittura d’arrivo. La prima strofa di “Endless Apathy” è in clean vocals, mentre i testi si confermano visionariamente caustici («my empty soul / feed me with anger, feed me with love / take me out of my cold, feel me), ma a tratti scadono nel grottesco (s for silence, m for mediocrity / v for violence, i for this insanity»). Buona la sezione strumentale a metà brano, con cenni di tapping, ma il sound risulta anodino per secchezze eccessiva e scarsa inventiva.
Chiude l’album “N?μεσις”, con titolo, in caratteri greci, che richiama il moniker della band siciliana. I testi questa volta sono romantici («when pain is caressed by dark gray clouds / and sky resembles a stormy sea upside down / when rain comes pouring down and horizon disappears») e i più alati del platter. Il minutaggio è ancora una volta troppo prolungato e le ultime parole sarebbero risultate più convincenti se cantate in clean: «bring us balance, equilibrium / bring us justice, bring us equilibrium».

Si è solo parzialmente soddisfatti dopo l’ascolto di Descending Patterns, in sostanza un disco che si presenta accattivante, ma poi risulta poco più che sufficiente. Gli EpisTheme tentano di trattare temi dal notevole ventaglio emotivo, «dalla declinante claustrofobia dell’isolamento dell’Io al rapimento dell’anima nell’osservazione del buio dentro se stessi», modulando «un grido disperato e silenzioso a scuotere e sconvolgere la coscienza», ma tutto sa di già sentito (scream e clean, ritmiche minimaliste, testi criptici). Diamo tempo al tempo, una giovane band necessita di perseveranza e un guizzo di genialità per sfondare.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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