Recensione: DIC·NII·LAN·DAFT·ERD·ARK

Di Stefano Burini - 16 Maggio 2013 - 0:01
DIC·NII·LAN·DAFT·ERD·ARK
Band: D-A-D
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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80

Brindare ai trent’anni di carriera, magari senza mai assurgere al ruolo di stelle di primissima grandezza ma potendo vantare un seguito ad ogni modo numeroso e molto fedele, oltre che un invidiabile coerenza d’intenti, è appannaggio di pochi. Sicuramente, tra coloro che possono affermare di essere passati indenni attraverso tre decenni e le mode che li hanno caratterizzati, vale la pena ricordare i D-A-D, band danese di lungo corso da sempre guidata dai fratelli Jacob e Jesper Binzer e dal fido scudiero Stig Pedersen.

Dai tempi d’oro di “No Fuel Left For The Pilgrims” e “Riskin’ It All” ne é indubbiamente passata di acqua sotto i ponti, eppure ascoltando “DIC·NII·LAN·DAFT·ERD·ARK”, l’ultimo nato di casa D-A-D, appare immediatamente chiaro che il loro sound non ha subìto, all’alba degli anni 2010, cambiamenti sostanziali. Le chitarre mantengono il taglio ruvido di sempre, in bilico tra tentazioni glam e distorsioni al limite dello stoner e, dal canto suo, la voce di Jesper è più sguaiata e maleducata che mai, né la leggera patina di polvere attorno alla sua ugola  preoccupa in alcun modo l’ascoltatore andando, anzi, addirittura a conferire ai brani più malinconici un impagabile fascino vissuto e decadente. Altrettanto ben conservata si dimostra, inoltre, la capacità di scrivere con eguale abilità canzoni rockeggianti e orecchiabili, quanto spettacolari ballate semi-acustiche in grado di stringere i cuori dei rocker sparsi per il globo in una morsa d’acciaio.

“A New Age Moving In”, proprio a conferma di quanto testé asserito, ci catapulta immediatamente in un universo a base di chitarre roventi, killer riff e ritornelli da cantare a gran voce sin dal primo ascolto. Rock d’altri tempi, di cui la citata opener è un validissimo e, per fortuna, non isolato esempio. Sulla stessa falsariga si giocano l’altrettanto efficace “The End”, la scatenata  “Drag Me To The Curb” e la favolosa “The Last Time In Neverland”, mentre sul versante dei “lenti” c’è davvero di che godere, tale e tanta la qualità offerta dai danesi. “The Place Of The Heart” è una semi-ballata di straordinaria bellezza, impregnata di sudore, sangue, whiskey e polvere come forse nessun’altro è mai riuscito a fare, eppure le successive “Breaking Them Heart By Heart”, con quella melodia che vale una vita, e “We All Fall Down”, un brano elettroacustico dal retrogusto vagamente stradaiolo sulle tracce della mitica “Laugh ‘n’ a ½”, non sonocerto da meno. Tra le pieghe di un album decisamente vario ed eterogeneo trovano, successivamente, spazio  le atmosfere western “vecchia maniera” di “Can’t Explain What It Means”, degna discendente delle hit di venticinque anni or sono con un Jesper decisamente vicino alle tonalità di un certo Steven Tyler, e il glam rock Dogs D’Amour-oriented della notevole “The Wild Thing In The Woods”. Completano il quadro “Fast On Wheels”, un pop leggerissimo e rinfrescante come una pioggia d’estate, il rock ciondolante e molesto di “I Want What She’s Got” e il gran finale riservato a “Your Lips Are Sealed”, una delicata e riuscita ballad praticamente per sola voce e pianoforte.

E’ sempre un piacere ritrovare un vecchio amico che non si incontrava da molto tempo e l’emozione che si prova ascoltando dischi come “DIC·NII·LAN·DAFT·ERD·ARK” è esattamente la medesima. Il mondo della musica, come tutto il resto, avanza e procede verso un futuro certamente non  privo di rosee previsioni, tuttavia è sempre un piacere constatare che determinate realtà, a distanza di tanti anni, continuino a costituire dlele piacevoli certezze. I D-A-D, bontà loro, rientrano di diritto in questa categoria. Thank you, guys!

Stefano Burini

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Nota a margine

La “Deluxe Edition”, uscita ad inizio 2013 contiene ulteriori sedici tracce tra versioni acustiche e registrazioni live di brani sia vecchi che nuovi; nulla da dire sulla qualità delle canzoni “bonus” ma è altrettanto doveroso affermare che il valore aggiunto in relazione all’album vero e proprio è tutto sommato modesto. L’opener “A New Age Moving In” viene riproposta sia in variante acustica sia in variante live e se la prima, pur meno efficace dell’originale, presenta ad ogni modo qualche motivo d’interesse, quest’ultima risulta sinceramente ridondante. Un’analisi equivalente può essere peraltro estesa ad altri brani come “The End” (molto piacevole in questa sorta di “cowboy version”), “Last Time In Neverland” e “The Place Of The Heart”, la migliore in versione “elettrica” e, non a caso, anche la migliore in versione unplugged. Le restanti canzoni sono registrazioni dal vivo di vecchi successi come “Jihad”, “Ridin’ With Sue”, “Monster Philosophy” e “Everything Glows”, piacevoli e divertenti ma, come anticipato, non imprescindibili.

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