Recensione: Divina Commedia: Inferno

Di Stefano Usardi - 1 Aprile 2017 - 9:12
Divina Commedia: Inferno
Band: Starbynary
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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76

Secondo album per i nostrani Strabynary, che a tre anni dall’esordio sfornano questo “Divina Commedia: Inferno”, chiaramente dedicato a uno dei componimenti più importanti di tutta la letteratura italiana: la Comedìa del sommo Dante Alighieri, opera che molti degli studenti dello stivale hanno imparato (spesso a torto) a odiare. Progetto temerario, non c’è che dire, già tentato altrove e con alterne fortune, ma come disse un tale “Quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare” e così il buon Joe Caggianelli (ex Derdian) e la sua dotata compagine si sono rimboccati le maniche e hanno raccolto la sfida iniziando giustamente con la cantica infernale, introdotta visivamente dal minaccioso Caron dimonio che campeggia in copertina.
La proposta degli Starbynary si può descrivere come un maestoso power metal dalle pesanti influenze prog, ricco di sfaccettature e permeato da una teatralità che però, nonostante il tema trattato, mi è sembrata in qualche occasione un po’ troppo forzata. La cantica dantesca viene qui doverosamente riassunta (impossibile mettere in musica un’opera così complessa senza operare dei vigorosi tagli) pur mantenendo alcuni punti salienti nella scansione cronologica dei canti e alcuni tra i personaggi più noti.

Si comincia, com’è giusto che sia, nella selva oscura: un incipit degno dei Rhapsody of Fire più pomposi da il la alla traccia “The Dark Forest”, in cui si mettono subito in luce le doti compositive e strumentali del gruppo. Il brano è ricco di spunti interessanti, cambi di tempo e di atmosfera, e si muove con grande disinvoltura tra passaggi ariosi e magniloquenti e rasoiate chitarristiche secche e minacciose, ottimamente supportate da una sezione ritmica in grande spolvero. Neanche il tempo di rendersi conto di quello che sta succedendo (e che nel frattempo sono già trascorsi quasi sette minuti) che si passa alla successiva “Gate of Hell”, introdotta da un riff insistente e aggressivo e da tastiere fredde di scuola Dream Theater. Dopo la sfuriata iniziale il brano perde un po’ della sua carica, stemperando l’iniziale violenza con linee vocali melodiche e passaggi più mesti e lirici, sebbene una certa tensione si continui ad avvertire per tutta la sua durata grazie al costante lavoro delle chitarre. Una nenia malinconica introduce in modo azzeccato l’atmosfera che si respira nel limbo, in cui si trovano gli spiriti virtuosi privi, però, del battesimo. “In Limbo” gioca con la paura di Dante, incapace di vedere granché ma in grado di percepire i sospiri delle anime perse, che fanno tremare l’aria tenebrosa del primo cerchio infernale. Per questo motivo è la tristezza che permea la traccia, mescolata a una certa inquietudine che fa capolino di tanto in tanto, mentre i passaggi più movimentati sono molto limitati. La malinconia prosegue nella traccia successiva, concernente due dei personaggi più famosi dell’Inferno dantesco: gli amanti Paolo e Francesca. La tragica passione dei due screzia il mood della canzone con improvvise pulsazioni melodiche (come durante l’ottimo ritornello che ricalca la celeberrima “Amor ch’a nullo amato amar perdona”), mentre nella seconda parte il brano si movimenta per rappresentare il vento infernale che rapisce di nuovo le due anime e le riconsegna al tormento eterno. Con “Medusa and the Angel” il suono degli Starbynary torna ad incattivirsi per rappresentare i dubbi e le inquietudini di Dante, nonché l’incontro con le furie nei pressi della città di Dite, le cui resistenze vengono piegate dall’arrivo del messo angelico. Il brano, nonostante le sporadiche sfuriate che ne punteggiano soprattutto la prima metà (si veda ad esempio la breve ma frenetica sezione solista), procede a velocità piuttosto contenute, indulgendo nel finale in un certo pacifico trionfalismo. “Seventh Circle” procede inizialmente lungo ritmiche scandite e minacciose, ai limiti del doom, per descrivere le pene che spettano ai violenti. Improvvisamente la traccia si incattivisce e acquista velocità, e mentre le chitarre vomitano riff su riff la sezione ritmica inizia a pestare duro. Il breve intermezzo dissonante serve al gruppo come pausa prima di lanciarsi in una nuova carica, dominata dall’intreccio di assoli che a loro volta aprono la strada al finale più mesto. Un canto lirico e una melodia plumbea e trasognata introducono “Malebolge”: anche qui a una prima metà più cupa e malinconica, quasi un’oscura ballata, segue un’improvvisa quanto fulminante accelerazione che, a sua volta, cede il passo al ritorno delle liquide e crepuscolari melodie che ci accompagnano fino alle note di piano della traccia successiva, nonché vera ballad dell’album: “Soothsayers”. Qui, il castigo dei veggenti viene ben descritto dalla carica espressiva di Joe che, sebbene in un inglese perfettibile (una delle rare pecche di questo lavoro, ma che in più di un’occasione mi ha impedito di apprezzare del tutto la resa vocale di Caggianelli), riesce ad immedesimare l’ascoltatore nella pena degli individui che per la loro dote di vedere nel futuro sono costretti a camminare all’infinito con la testa rivolta all’indietro.

Un’introduzione trionfale spezza la malinconia della ballata e ci catapulta nell’azione della successiva “Ulysse’s Journey”, in cui torna a sentirsi profumo di prog metal dal piglio aggressivo. Il piano torna a risuonare dopo la citazione del verso dantesco (fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza), inframezzando il pezzo con un passaggio molto lirico prima della bella sezione solista e del finale trionfale, in cui Ulisse continua a propugnare sprezzante la ricerca della conoscenza nonostante l’abbia condotto alla morte. Stiamo arrivando alle battute finali, e per “The Tower of Hunger” ci si concentra su uno dei personaggi più iconici della cantica (nonché uno dei miei preferiti, lo ammetto): il conte Ugolino. Abbandonato l’afflato trionfale del pezzo precedente gli Starbynary ripescano elementi del prog rock dei decenni passati  per caricare la canzone di un caleidoscopio di influenze, giocando con cambi di tempo e gli inserti di cantato in italiano che già avevano fatto la loro comparsa qua e là nell’album. Decisamente una delle tracce più riuscite dell’album, a detta di chi scrive.
Chiude questa cantica infernale la lunga suite “Stars”, in cui l’inasprimento del suono rende l’idea di chi si stagli davanti a Dante nel punto più basso dell’imbuto infernale: lo’mperator del doloroso regno. Le tastiere-hammond richiamano di nuovo un certo rock mefistofelico degli anni ’60 e ’70, sorrette da riff corposi e una sezione ritmica frastagliata e gelida. Il passaggio attraverso il centro del mondo occupa il secondo movimento della suite, in cui i ritmi passano da un sognante intermezzo narrato a una parte più frenetica che rende lo spaesamento di Dante per il cambiamento circostante e traghetta l’ascoltatore nel finale della canzone, dai ritmi scanditi ma permeato da una nuova energia dovuta allo scampato pericolo ed alla conclusione dell’avventura infernale, coronata dall’immortale chiusura dantesca: e quindi uscimmo a riveder le stelle.

Che dire, dunque, di quest’ultima fatica dagli Starbynary? Innanzitutto che, al netto di un’ora e sette minuti di musica riesce nell’arduo compito di catturare alcuni aspetti dell’opera letteraria e della sua atmosfera, ma va anche detto che il suo approccio così particolare lo rende un album non per tutti, o comunque di non facile presa: rispetto all’esordio, infatti, le parti più prettamente power sono sparite per essere sostituite dagli eleganti inserti prog che potrebbero far storcere il naso ad alcuni vecchi fans. In conclusione “Divina Commedia: Inferno” è un prodotto indubbiamente ambizioso, strumentalmente impeccabile e, in definitiva, superiore alla media, che però necessita di numerosi ascolti per essere apprezzato appieno. Se proprio dovessi trovare dei punti deboli, direi probabilmente che il cantato di Joe non mi ha sempre convinto, nonostante le sue indubbie doti vocali ed espressive: forse avrei preferito più citazioni dantesche in italiano (lo ammetto, quel “galeotto was the book and he who wrote it” in inglese non mi è andato proprio giù), ma come vedete si tratta di cercare il proverbiale pelo nell’uovo. Ad ogni modo ascolto consigliato, ma se siete amanti del power tutto cavalcate e melodie epiche vi avverto: approcciatevi a questo album con una buona dose di pazienza.

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