Recensione: Dragon’s Kiss

Di Enrico Di Marco - 5 Maggio 2013 - 13:37
Dragon’s Kiss
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Anno: 1988
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85

Ci sono musicisti che spesso vengono ricordati per i gruppi più famosi di cui hanno fatto parte ma che non vengono giustamente valorizzati per tutti i progetti secondari della loro carriera musicale.
Uno tra questi è Marty Friedman che, oltre alla sua leggendaria fama coi Megadeth rimane degno di nota per le carriere con Vixen, Hawaii, Cacophony e per alcuni album solisti davvero interessanti.

Primo per pubblicazione e importanza è lo strumentale Dragon’s Kiss rilasciato nell’1988.
La Line up di tale album conta Friedman stesso a chitarra, basso e tastiere, insieme a due suoi compagni nei Cacophony: Deen Castronovo alla batteria e Jason Becker alla seconda chitarra solista nella prima e sesta traccia.
L’album riprende lo stile già intrapreso con le due precedenti release dei Cacophony: suono aggressivo, ritmiche complesse con cambi di tempo e fraseggi orientaleggianti armonizzati da due chitarre perfettamente sincronizzate.

Inserito il cd nello stereo si viene colpiti dall’impetuoso attacco della traccia “Saturation Point” in cui assolo arabeggianti si miscelano con una sezione ritmica di basso e batteria all’insegna del progressive e del thrash. Il brano eccelle poi nell’assolo in cui gli arpeggi fulminei di Becker si intricano con le incredibili melodie di Friedman, riportando l’ascoltatore alla leggendaria traccia “Speed Metal Symphony” dell’87.
Secondo episodio è “Dragon Mistress” la cui ritmica tipicamente Heavy Metal fa da sfondo non irrilevante ad alcune melodie davvero ben costruite, le quali sfociano talvolta in efficaci virtuosismi.
Attacca poi “Evil Thrill” in cui Friedman fa gioire i seguaci dello shredding (e non solo) con assolo ultra-tecnici enfatizzati da delle armonizzazioni perfette.
Il quarto pezzo, “Namida (tears)”, ci regala un attimo di respiro dagli incalzanti solo, ma offre anche un’incredibile malinconia per le grandi melodie dei Cacophony prendendosi di diritto un posto nelle migliori composizioni di Marty.

Ci si riprende da questa estasi con un brano davvero aggressivo: “Anvils”, che, non essendo focalizzato sugli assolo bensì sulle ritmiche, ci regala una perla del thrash strumentale.
Con “Jewels” scopriamo la perfetta sintonia musicale tra Becker e Friedman, che offre quasi metà pezzo a Jason per le sue composizioni ed i suoi riff in cui rieccheggiano le melodie di “Ninja” e “Black Cat”.
Degno di ammirazione e lode è poi “Forbidden City” (a mio parere la miglior traccia del disco) la cui struttura segue le modalità di un crescendo: inizio con un nostalgico arpeggio da cui, all’improvviso, nasce un riff davvero accattivante per poi terminare sulle ritmiche thrash per cui Marty si rese famoso coi Megadeth.
Sono inoltre da evidenziare i particolari solo che si alternano come in un dialogo per poi tornare sempre sul tema principale di questo magnifico strumentale.
Ultimo acuto è la particolare “Thunder March” in cui non sono quasi presenti virtuosisimi, bensì in sottofondo ad una linea melodica che viene ripetuta, la sezione ritmica si modifica sviluppando una melodia complessiva davvero piacevole e per nulla stancante.

Ovviamente un capolavoro strumentale, quest’album merita di entrare nelle collezioni di chiunque abbia apprezzato gli album dei Cacophony e di Becker.
Per chi invece, non ha  mai avuto contatti con il metal strumentale, un album che può offrire il giusto stimolo per approfondire.

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