Recensione: Fireball

Di Abbadon - 2 Gennaio 2004 - 0:00
Fireball
Band: Deep Purple
Etichetta:
Genere:
Anno: 1971
Nazione:
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90

Ian Gillan alla voce, Ritchie Blackmore alla chitarra, Jon Lord alle tastiere, Ian Paice alla batteria e Roger Glover al basso. Questi sono i nomi dei 5 eroi che nel 1970 misero al mondo quello che ancora oggi è considerato uno dei più grandi dischi di ogni epoca in ambito rock. Tale splendente gemma venne chiamata “Deep Purple In Rock”, gemma che, a 30 anni e passa di distanza, viene ancora riconosciuta come modello da seguire. Come poter eguagliare tale opera? I Deep Purple nel 1971 provarono a dare la risposta a questo enigma, e lanciano sul mercato il loro quinto disco in senso assoluto, ma secondo se prendiamo appunto In Rock come loro anno 0, disco intitolato “Fireball”. Registrato tra la fine del 1970 e la prima metà dell’anno seguente, la storia consegna a “Fireball” un ruolo piuttosto ingrato, ovvero quello di passaggio tra il mostro messo in musica prima citato e il successivo “Machine Head”, altrettanto mostruoso. Il risultato di queste due opere è stato anche quello di far mettere spesso “Palla di fuoco” in una sorta di limbo, di dimenticatoio, una immissione che però solo un folle, tra coloro i quali reputano di possedere una buona conoscenza musicale, potrebbe fare. Già, perché anche quest’opera, nonostante non brilli come i suoi due illustri fratelli, merita di essere scrupolosamente seguita ed acclamata. Pubblicato in due versioni, una Europea e una Nippo/Americana (nella quale cambia una canzone della tracklist), questo album è ancora una volta la solidissima testimonianza di quanto i 5 compositori fossero in grado di sfornare, con continuità quasi fastidiosa (ovviamente per i pochi detrattori), prodotti che fossero fusione fra melodia, tecnica, potenza e quant’altro in un prezioso tutt’uno, tutt’uno che li consegna giustamente, ora come in passato, su un ipotetico podio delle band più grandi del loro periodo (indichiamolo come i primi anni 70, visto che la line up dei Purple sarebbe da lì a pochi anni cambiata). Inutile parlare di tecnica strumentale, tutti conoscono i loro “polli”, ribadiamo soltanto di come Blackmore sia stato geniale ed influente sul genere tutto (Stratocaster, Rainbow e quant’altro), di come Gillan si sia imposto come uno dei cantanti con maggior potenza vocale del genere (Eric Adams molto gli deve), di come Lord sia meritatamente ed universalmente riconosciuto fra i maggiori tastieristi di sempre. Per non parlare del genio compositivo ed esecutivo di Roger Glover e di di Ian Paice. Proprio Ian è forse quello che in questo disco si sente maggiormente, il musicista principe, capace di tenere i ritmi e dettare i tempi in maniera perfetta sia nei tratti più lenti che nelle furiose cavalcate, sempre a regola d’arte. Visto che abbiamo detto niente tecnica passiamo a sfogliare un po’ la tracklist di questo lavoro. Su tutte emergono la titletrack, un velocissimo gioiello che non tutti ricordano, e la maestosa “The Mule”, della quale vi è anche una superba reinterpretazione nel monolitico live “Made in Japan”. Ma se le song “da 90” sono queste, non bisogna scordarsi che ve ne sono altre 5 (6 se consideriamo ambedue le versioni del prodotto) da tenere sott’occhio, quindi vediamole.
La già citata Fireball è l’opener dell’omonimo disco. Un grandissimo drumming ci porta ad un pezzo velocissimo ma ben bilanciato e non opprimente. Si nota subito quanto sia fondamentale la batteria, perfettamente dominata da Paice, che viene seguito a ruota dalle chitarre e dal basso. Gillian si dimostra piuttosto contenuto, per esplodere ogni tanto con un timbro altissimo e diretto ma allo stesso tempo pulito e senza sbavature. Grande bridge, gustoso refrain, strofe headbangesche, assolo di classe (di tastiera tra l’altro), che volere di più? Davvero nulla, e infatti Fireball è sicuramente la mia track preferita di tutto il platter, platter che continua con la valida, anche se inferiore, “No no no”. Meno esuberante della precedente, questa song è un mid tempo dove emerge soprattutto un ottimo basso che si inframmezza a un duo chitarra/keyboard, che creano una atmosfera di suspence. Il tutto (pacifico assolo incluso)  risulta ottimamente legato, in quanto nessuna delle due “sponde” domina sull’altra, bensì funge da ottimo complemento, con la creazione di piacevoli cambi di tempo. Che dire, non sarà fenomenale, però No no no ha un grande potere di relax, e ciò non gusta, dopo la sfuriata precedente. Il terzo brano è quello della divisione : infatti se sulla Euroversion è presente “Demon’s Eye”, su quella USA/Japan è riproposta “Strange Kind of Woman”, inclusa anche su Made in Japan. Nonostante le due track siano sostanzialmente differenti fra loro nessuna delle due prevale sull’altra in bellezza (è una gara di più che buon livello qualitativo), quindi tanto vale sentirle ambedue, magari sul remaster avvenuto in occasione del 25esimo anniversario della band, ove sono presenti entrambe. Stranissima ma favolosa “Anyone’s Daughter”, che all’inizio spazia fra frammenti  di songs contemporaneamente diverse (fra caroselli, batterie ed altro, che quasi sembrano simulare una persona che sta girando i canali della radio) per poi fossilizzarsi su un brano rapido ma che include melodie incredibili e decisamente country, melodrammaticità e spensieratezza, virtuosismi ma soprattutto la magia di Blackmore e Lord, che qui sono spettacolari, quattro minuti e  quarantuno di maestria. Se ci aggiungiamo anche un cantato decisamente ispirato, viene fuori una canzone imperdibile, che nonostante rappresenti fondamentalmente un intermezzo, si fa ascoltare decine e decine di volte senza stancare mai, e fa da sipario ad uno dei capolavori dei Deep Purple, la grande “The Mule”, forse una delle maggiori performance in studio da parte di un batterista Hard Rock. Qui Paice è davvero terrificante, crea dei tempi incredibili a tutte le velocità possibili e immaginabili, senza perdere mai un colpo. Anche gli altri sono bravi nel formare questa bella canzone, lunga e di grande atmosfera ma, gira che ti rigira, tutto ruota attorno alla prestazione dello storico drummer (e per un drummer non è poco). Non dico altro, la canzone la conoscono praticamente tutti, viste le numerose versioni nella quale è presente, a chi non la ha sentita consiglio solo di colmare una lacuna davvero grave. Sesta ma non ultima “Fools” lento che interpreta molto bene (in principio) lo stile delle maggiori ballad dei primi settanta. Trascinatore iniziale Lord, che in questa dolce malinconia è maestro, Lord che poi lascia spazio agli altri 3 strumentisti, quando la track diventa decisamente più potente (tratto centrale, dove Gillan urla tutta la propria rabbia), per chiudere in modo cupo, su scale bassissime. Ultima traccia di Fireball è la rapida “No one Came”, probabilmente la meno riuscita tra le sette sorelle del disco, sicuramente quella che gradisco di meno, ma che ugualmente molte band possono solo immaginarsi. Finite la musica e tornando al discorso del dimenticatoio fatto all’inizio dico : quando spolverate i vostri porta cd, o li riordinate, quando arrivate ai Deep Purple verificate di aver Fireball tra i dischi in vostro possesso. E’ vero non è una pietra miliare, però di cd così non ce ne sono mica tanti in giro. Ricordate di chi stiamo parlando.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Fireball    3.24
2) No no no    6.54
3) Devil’s Eye   5.14  –  Strange kind of woman   4.18
4) Anyone’s daughter    4.41
5) The mule    5.21
6) Fools     8.18
7) No one came    6.24

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