Recensione: Hexenhammer

Di Marco Tripodi - 11 Novembre 2018 - 8:00
Hexenhammer
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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58

Aggiungiamo una nuova peculiarità alla Svizzera, dopo la cioccolata, gli orologi, l’emmenthal, gli sportelli bancari, i Celtic Frost, i Coroner, i Gotthard, i Lacrimosa e la Hunziker, dal 2015 abbiamo pure le Burning Witches, volitivo quintetto di true metal ortodosso e intransigente che tenta di riportare in auge la formula che qualche decennio addietro fece la fortuna di diverse pulzelle vestite di pelle e borchie. Col passare del tempo, fatte le dovute eccezioni, le metal girl dedite al “semplice” e “normale” heavy metal incontaminato sono rimaste poche, oggi dici donna è dici gothic, symphonic, alternative, hard rock, persino death e doom, ma di metallare alla Doro Pesch – per intendersi – ce ne sono in percentuale assai meno. La citazione di Frau Pesch non è casuale visto che il riferimento da parte delle svizzere è calcato sin dal monicker scelto per autorappresentarsi. Un’occhiata al look ed un ascolto al genere proposto, e non rimangono molti dubbi sul fatto che tra una Doro e una Anneke van Giersbergen o una Angela Gossow, le Streghe sceglierebbero la signora Warlock per tutta la vita.

Hexenhammer” è il loro secondo disco, che segue di appena un anno il debutto omonimo. Un solo cambio in formazione, Alea Wyss alla chitarra ha lasciato il posto alla nuova Sonia Nusselder. Per il resto, il quintetto marcia compatto sulla strada del metal tradizionale e quanto più possibile vicino alla decade ottantiana, se non nella produzione (marchiata Nuclear Blast) – che vede persino lo zampino di Schmier dei Destruction alla consolle – perlomeno nel tipo di sonorità. In tal senso l’album delle ragazze è roccioso, diretto, lineare (molto lineare) e tutto poggiato su canzoni, situazioni e chorus anthemici indirizzati a creare fratellanza, appartenenza, condivisione di anime ed intenti sotto l’unico immarcescibile vessillo che ha guidato tanti eserciti prima di loro (dai Manowar ai Virgin Steele, dagli Omen ai Judas Priest, dai Saxon agli Anvil, e via discorrendo di schiene dritte e cameratismo musicale). Si può voler bene a queste cinque guerriere e se ne può ammirare tenacia e determinazione, ma ponendosi ripetutamente all’ascolto di “Hexenhammer” quello che emerge non è granché confortante e/o entusiasmante. Mettendo da parte l’aspetto “esotico” dell’appartenenza al gentil sesso, che fa sempre un certo effetto sulla platea maschile di metalkid, inutile negarcelo, e che da sé fa già circa un 50% di motivi di interesse verso questo platter, ci si ridimensiona già un bel po’. Un altro 25% lo strappa la singer Sereina Telli, assai espressiva, grintosa e impegnata in ogni modo a dar profondità e personalità alle sue interprerazioni, decisamente una vocalist di qualità e carisma. Un 10% va attribuito all’artwork, magari non originalissimo ma pur sempre suggestivo. Rimane un 15% da assegnare alla musica, che è davvero poco considerando che sarebbe l’elemento che dovrebbe prevalere, persino in assenza degli altri (se ad esempio, senza connessione internet o in pieno black out elettrico, avessimo unicamente la possibilità di ascoltare il disco senza alcuna informazione sulla band, né foto ed immagini di supporto).

La tracklist mi ha fatto un effetto curioso. Sono dovuto arrivare fino a “Maiden Of Steel“, sesta traccia in scaletta, per essere scosso dal torpore e mettere a fuoco finalmente qualcosa di interessante e discretamente concepito. Quello che una volta si sarebbe chiamato il lato A del platter (ovvero ben 5 canzoni su 12 totali, che aumentano a 14 considerando le bonus track) praticamente scorre via senza menzioni di nota; una serie di composizioni prevedibilissime, monocorde e tutto sommato piatte, affidate unicamente al senso di “metallitudine” doc che il sound delle Burning Witches evoca, ma senza null’altro da aggiungere. Ti ripeti tutto il tempo che si tratta di cinque ragazze, belle e bellicose, ma se quei brani fossero stati il prodotto di cinque ragazzotti esteticamente meno appaganti, nessuno avrebbe speso grandi parole di elogio per una formula compositiva così banale. Il ritornello della opener “Executed” è emblematico in tal senso, la parola “E-Xe-Cu-Ted!” viene scandita e sillabata con vigore e nient’altro, come a dire “i muscoli li possiamo tirare fuori anche noi, come i nostri colleghi maschi, che credete!“. Beh, troppo poco. Ecco che “Maiden Of Steel” arriva inaspettata poiché, pur senza essere di per sé sconvolgente, vira sorprendentemente verso territori epic metal, alla maniera di certi afflati heroic fantasy, dove il vocalist fa la differenza, narra convulsamente una storia, il tappeto strumentale sotto non cerca asfitticamente una melodia facile e perlomeno, oltre al testosterone alla Conan il barbaro, sentiamo netto e chiaro un impeto narrativo ed immaginifico.

Probabilmente imbambolato ed incantato da questa improvvisa inversione di tendenza, mi sono ritrovato a gradire pure le successive “Dead Ender” (“Dungeon Of Infamy” è solo una intro) e la stessa titletrack, come se tutto insieme le Burning Witches avessero trovato il bandolo della matassa ed avessero preso a far girare le ruote sui binari giusti. Due pezzi sempre all’insegna dello stra-sentito – come il background di riferimento della band impone e richiede – ma perlomeno ben fatti e convincenti. Poi però la malia si interrompe di nuovo ed il resto dell’album scivola via sulle medesime coordinate che lo avevano caratterizzato prima della insperata brillante sezione mediana. Si chiude con una ruffianissima cover di “Holy Diver“, affatto disprezzabile, ma che quanto a inflazione non teme rivali. Seguono due bonus track, una delle quali è semplicemente la rivistazione acustica di “Don’t Cry My Tears“, già (noiosa) ballad di per sé. Mi dispiace ma a me le Burning Witches il cuore non l’hanno scaldato. E rimango convinto che se invece di cinque femminucce si fosse trattato di cinque maschietti avrebbero riscosso un quarto dell’hype che la band ha suscitato (adeguatamente caldeggiata dalla macchina da guerra rispondente al nome Nuclear Blast). Tutto sommato si tratta di una band giovane, che esiste da appena 4 anni e che può indubbiamente maturare con l’esperienza e qualche tour al traino di grandi nomi. Potenzialità e caratura mediatiche non mancano loro, speriamo che un futuro prossimo album mostri un po’ di idee e di sostanza in più. Occorre migliorare anche la trama delle songs, suonate in modo dignitoso ma davvero prive di mordente e fantasia, soprattutto per quanto attiene alla sezione ritmica, a mio parere.

Marco Tripodi

 

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