Recensione: His Creation Reversed

Di Tiziano Marasco - 31 Luglio 2013 - 10:29
His Creation Reversed
Band: Havayoth
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2000
Nazione:
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80

Il genio di Andreas Hedlund, si sa, va ad ondate che ogni 6 anni ci inducono a fare mutui ventennali per poterci permettere le creazioni che egli sforna a mitraglia in un solo biennio. Già lo scorso anno aveva minacciato tre uscite per questo 2013 (nessuna delle quali attualmente certa), a seguito di altre tre uscite uscite nei sedici mesi antecedenti. Risalendo la china del tempo però, in parecchi ricorderanno le sette uscite tra il 2006 e il 2008. Alcuni di meno probabilmente ricorderanno anche le altre sette release pubblicate tra il 1998 e il 2000 quando il nostro Andreas, desideroso di farsi conoscere, aveva esplorato minuziosamente tutto lo scibile del metal scandinavo al timone delle sue band di allora, Vintersorg e Otyg. Pochi (forse) però sanno che in quel 2000 cosmogenico il giovane Hedlund aveva trovato il tempo di aggregarsi ad un altro progetto parallelo iniziato da Morgan Hansson e Marcus Norrmann (pronto a entrar di lì a poco nei Naglfar), allora militante nei Bewitched, band dedita ad un retro thrash blackeggiante.

Il progetto si chiamava Havayoth, l’unico suo frutto porta il titolo di His creation reversed, nato, secondo le affermazioni dei tre, dalla bisogna di sperimentare un tipo di metal differente da quanto già proposto nei gruppi madre. Esternazione che, se unita all’ascolto dei Bewitched e di alcuni dischi a caso quali Älvefärd, Till fjälls e Cosmic genesis, lascia quantomeno perplessi, dacché per esclusione l’unica possibilità rimasta sarebbe stata coverizzare i Gammaray.

Ad ogni modo, quell’His creation reversed si sarebbe rivelato un piccolo gioiello dal cuore di tenebra, un disco di eleganza sopraffina sobria e gustosa. Un disco effettivamente vintersorganico, forse per il cantato di Hedlund, assai debitore di Cosmic genesis nel suo unire sonorità assai moderne ad un songwriting figlio dei grandi classici heavy ottantiani. Il tutto avvolto in un alone di oscurità che ne fa un omaggio alla notte pacifica in cui l’uomo solitario si perde a guardare le stelle.

Metal e notte contemplativa? Possibile? Naturalmente sì, se ci è concesso spiegare le cose con ordine.

Tralasciando la marcetta iniziale di Transcendence, ci troviamo avanti la fenomenale Mirrors, climax di chitarre e riff assassini, brano solido e senza troppi fronzoli, efficace e trascinante. Con the watcher però il trio ci presenta la vera anima del disco, che viaggia su ritmi molto lenti, in cui la fanno da padrone ancora le chitarre, ma dove i ritmi si fanno molto più lenti e le tastiere, apparentemente dimesse, creano una grandiosa atmosfera notturna. A ciò si unisca il cantato di Hedlund, sempre modulato su toni bassi, profondo come mai era stato prima e come non sarebbe mai più stato neppure in seguito. Già, perché qui il nostro si priva di quasi tutti i suoi vizi stilistici, soprattutto non si concede quegli acuti che alcuni, soprattutto nei dischi dei Borknagar, avrebbero trovato fastidiosi.

In sostanza la musica che viene fuori è una sorta di heavy metal contemplativo a forti tinte gotiche, lontano sia dalle ballad smielate in stile Manowar così come distante dalle montagne russe degli Iron maiden. Dopo The watcher, seguono tante piccole gemme intervallate da due brani strumentali di Gran pregio (Starfall e Dreaming). Impossibile non citare l’incantata Teloah, sette minuti di pura poesia per chitarra, probabilmente il miglior brano del disco, a dispetto di un testo di una sola frase (I’ll come for you). Molto buona anche Wounds, pregna di una sofferenza che non esplode mai, fino ad arrivare alla catarsi conclusiva di Fallen, coi suoi cori che sembrano usciti da Kveldssanger.

His creation reversed, pur non avendo la ricchezza sonora di un Visions from the spiral generator o la ricerca filologica di un Älvefärd, è un disco estremamente piacevole. Non inventa nulla di particolarmente eclatante, ma conquista con la sua compatta semplicità e con la capacità di tessere grandi atmosfere. Uno di quei dischi che si ripescano a distanza di anni e ogni volta ti lasciano quella domanda in testa: “ma perché non hanno continuato?” 

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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