Recensione: Hunted

Di Andrea Poletti - 1 Dicembre 2016 - 3:06
Hunted
Band: Khemmis
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2016
Nazione:
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65

Pare proprio che l’onda di gloria i Khemmis la vogliano cavalcare a pieno catapultandoci come un fulmine a ciel sereno dentro questo secondo capitolo della loro brevissima ma altisonante carriera. Sono rimasto sorpreso anche dalle risposte ricevute dalla critica internazionale, ecco perchè che prima di scrivere questa recensione sono andato a spulciare in giro per la rete, cercando di comprendere come fossero visti questi ragazzi a terzi; chiamatela curiosità o come volete ma non riuscivo a credere ai miei occhi, constatando come nella maggior parte dei casi i votoni e gli applausi a scena aperta erano per la maggiore. Sconcertato dalle letture continuo ad ascoltare il disco decine di volte, una droga quotidiana sino a quanto basito chiedo altri parere, questa volta ad amici di vecchia data, con la conferma finalmente del mio stesso pensiero. Quale? Torniamo con le risposte e il parere definitivo al capitolo finale, ora concentriamoci meglio su questo “Hunted” che dalla sua ha come primo punto a favore una cover splendida e magistralmente realizzata.

Onestamente, come da logica, mi sarei aspettato un disco da parte del gruppo per metà 2017 o giù di li mentre quasi a sorpresa esce un anno dopo “Absolution” questo secondo capitolo, che mette in chiaro definitivamente le volontà del gruppo, confermando come la prima fatica è solamente un timido passo verso le vere volontà di tutti ogni band. Ora la strada è chiara. Senza girarci intorno, tempo da perdere non ne ha nessuno, per cui mettiamo subito le cose in chiaro: “Hunted” apre a sfumature più tendenti all’heavy classico piuttosto che focalizzarsi prettamente su un doom cavernoso e oscuro. Cinque canzoni solamente dal minutaggio abbastanza corposo che variano dai 7 ai 13 minuti della conclusiva ‘Titletrack’, certamente le classiche dilatazioni infarcite di growl e vocals pulite sono sempre dalla loro, ma oggi possiamo vedere il tutto ancora più “easy listening” per andare ad affacciarsi su linee melodiche più aperte ed accessibili. Alla gran lunga ad ogni modo si riesce a comprendere, come tutto quello che è stato scritto dentro il disco, è già parte di questa o quella band del passato, nomi quali Trouble, Candlemass, While Heaven Wept, Saint Vitus, Pallbearer e non solo echeggiano in lontanza. Sono solito dire che prendere dai grandi maestri e personalizzare è un pregio di pochi, ma in questo caso specifico qualcosa puzza di bruciato. Dato di fatto che tutte le tracce sono di massima fruizione e si ascoltano senza particolare impegno, alla base v’è una disomogeneità dello scorrere dei brani, che passano di palo in frasca quasi a voler dimostrare che “si è in grado di farlo” ma incollando il tutto quasi forzatamente. ‘Above the Water’ mostra subito di che scorza è fatto il disco, andando a prendersi il proprio spazio attraverso giubilanti riff che si districano gli uni sugli altri quasi a tenere sotto tensione l’ascoltatore minuto dopo minuto. Con la successiva ‘Candlelight’ ci ritroviamo di fronte a una struttura leggemtne più complessa dove la band grazie anche al buon lavoro di voce di Pendergast cerca di far contenti un po tutti; un lentaccio che si spinge quasi a toccare i lidi del funeral doom senza mai entrarci a pieno, per conlcudere con una acustica graziosa e celestiale. La successiva ‘Three Gates‘ e il passaggio da 0:50 a 2:03 è il punto cruciale su cui andare a leggere l’intero “Hunted”, ovvero la volontà non celata di far contenti un tutti, senza quella caratteristica che ad oggi riesce sempre di più a rendere unico un gruppo nel marasma globale: l’intolleranza e l’oltranzista volontà di non chinarsi di fronte a nessun compromesso. Tutto fila pressoché liscio sino alla conclusiva ‘Titletrack’, un mastodonte di gigantesche proporzioni che spicca grazie ai momenti di growl e le tempistiche proto “While Heaven Wept”-iane mischiate ai Judas Priest sino a collimare nel mid-tempo conclusivo canonico “powereggiante”. Senza ombra di dubbio è l’apice dell’intro album, ma anche il più grande punto interrogativo. Cosa vogliono trasmettere? Quale messaggio c’è dietro questo grande meltin’pot? 

A dispetto delle critiche i Khemmis hanno forgiato un disco valido ma non eclatante, un pacchetto che potrebbe piacere a molti ma non a tutti e qui torniamo finalmente al primo capitolo. Facendo diverse chiacchierate con gente esperta, gente che come me non ha peli sulla lingua, si è venuto a formare un minimo comune denominatore che prende il nome di “robetta”, ovvero Hunted” è più fumo che arrosto. Un buon disco, non essenziale che al cosiddetto “album dell’anno” non ci si avvicina nemmeno col binocolo; chi ha viaggiato spesso nel doom (vero) e nello stoner d’annata sa benissimo che certe volte le nuove leve hanno molto, molto ancora da imparare e in tanti si fregano con le loro stesse mani, presi più dall’emozione che dal vero merito insito nelle musiche proposte. A buon intenditore, poche parole.

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